Drammatico, Recensione, Sala

LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

TRAMA

Bologna, anni ’70. Due ragazzi mettono su un duo musicale sperando di andare a Sanremo e sfondare. Le cose andranno diversamente e arriverà il momento in cui i sogni si scontreranno con il ruvido della vita.

RECENSIONI

Le cose belle son volate via” canta(va)no i “Leggenda”, duo musicale nato negli anni ’70, nell’unica canzone degna di nota che hanno composto e a cui si aggrappa Marzio, giorno dopo giorno fino alla vecchiaia, per continuare a sperare in un successo che non arriva mai. A remargli contro, più degli accadimenti della vita, sono soprattutto un carattere poco incline al compromesso e l’incapacità di scendere a patti con le proprie pulsioni. Il suo amico storico Samuele ha scelto la strada della razionalità, trovando rifugio in un lavoro rassicurante in banca, e il loro incontro dopo tanti anni di silenzio si tinge subito di nero. Un colore caro a Pupi Avati, da sempre appassionato del genere horror che ha più volte affrontato direttamente e che fa capolino anche nelle commedie e nei drammi che mette in scena. Non è forse horror puro il quotidiano che vivono i due protagonisti, tra insoddisfazioni, rinfacci, malattie, infelicità e scelte estreme? La malinconia, stato d’animo caro al regista bolognese di cui è intrisa tutta la sua filmografia, non è tanto per un passato in cui si stava meglio, ma per un’epoca della vita in cui le possibilità parevano infinite e non ci si era ancora scontrati con i muri della disillusione. Sono le cose perdute a cui pensa il regista, in primis la giovinezza che tutto può rispetto a una vecchiaia che non fa sconti per nessuno, nemmeno per i più gratificati. A ben vedere i due protagonisti spensierati spensierati non lo sono mai stati o, perlomeno, il film non ce li mostra, sempre in ansia per una risposta che non arriva, un amore che poi va a rotoli e un’intesa amicale a stretto confine con qualcosa di più profondo e inespresso.

Purtroppo il film si limita ad accennare le cose, determinato a sondare soprattutto svolte e conseguenze e resta sempre in superficie. È questo il difetto principale di un’opera ispirata ma frettolosa, amara nel retrogusto e nella descrizione della maturità, generosa nel mescolare personaggi e note biografiche del suo autore (la quattordicesima domenica del tempo ordinario non è solo quella in cui il protagonista si sposa con il suo amore di gioventù, ma anche quella in cui si è sposato Pupi Avati), ma sbrigativa nell’esporre, e un po‘ sprecare, tutta la sua carica emotiva. La sincerità che trapela, il what if con cui Avati immagina come gli sarebbero potute andare le cose se non fossero andate bene, l’atmosfera mortifera che si respira a ogni inquadratura e che esalta l’aggrapparsi a una vita che si sente sfuggire, suppliscono solo in parte alla sciatteria dell’insieme. Finalmente non c’è bisogno di andare a Cuneo per filmare i portici di Bologna, come era successo con Gli amici del bar Margherita, ma il chiosco in via Saragozza, con i primi piani ravvicinati per nascondere il più possibile il brutto sfondo digitale, suscita più imbarazzo che meraviglia, così come i raccordi panoramici della città da fiction televisiva. Apprezzabili invece le scelte originali di cast, da sempre punto di forza del regista, in cui si distinguono Massimo Lopez, mai così drammatico, e una brava e sensibile Edwige Fenech, del cui personaggio, però, avremmo voluto sapere di più.