TRAMA
Glasgow. Dopo l’ennesima violenta intemperanza, Robbie, giovane (ex?) teppista, viene condannato a svolgere 300 ore di servizi socialmente utili. Il ragazzo sta per diventare padre e ha deciso di mettere la testa a posto. Il whisky sarà l’inaspettato strumento del suo riscatto.
RECENSIONI
La "razione degli angeli" del titolo si riferisce a quel 2% di alcool che evapora nell'atmosfera durante il processo di invecchiamento del whisky nelle botti. Nell'ecumenismo laico dell'ultimo Loach a richiedere la propria quota non sono però solo le creature celesti ma anche dei poveri diavoli, un gruppo di ragazzi disoccupati, male in arnese e apparentemente irrecuperabili. Comincia bene La parte degli angeli, generoso premio della Giuria al 65º Festival di Cannes, tra umorismo sboccato e stralunato (la voce di un capostazione-Dio che apostrofa pesantemente un ubriaco salvandolo da morte certa sui binari) e ritratto realista in cui l'ironia si lega a doppio filo a un panorama umano scalcagnato (la galleria di volti in tribunale durante la discussione dei singoli casi e la lettura delle sentenze). Il resto si adagia su una maniera senza acuti e senza sorprese, con la solita rigidità del regista inglese nel gestire il mélange comico-drammatico, più spesso risolto in una semplice alternanza di toni, e un umanesimo che spesso scioglie i grumi della complessità in un garbato paternalismo.
Favola sociale sulla seconda possibilità che ricorre agli oliati meccanismi dell'heist (feel-good) movie, l'ultimo film di Ken Loach vede in un primo momento la narrazione gravata dal peso di un determinismo crudele, alle cui maglie sembra impossibile sottrarsi (Just stuck in the same shit - dice sconsolato il protagonista guardando il figlio nato da pochi giorni). Nei sobborghi di Glasgow la gioventù ha poco o nulla a cui aggrapparsi per immaginare un futuro diverso dal degrado e dalla violenza quotidiana del presente (e per una volta le istituzioni non recitano esclusivamente la cattiva parte, cercando di svolgere alla meno peggio una funzione comunque riabilitativa). Una prospettiva cupissima che sarà smentita con una facilità forse eccessiva dalla sorridente - nonché programmatica - leggerezza del procedere degli eventi. Il flashback d'inappellabile durezza che conferisce concretezza visiva alla delinquenza brutale che il protagonista Robbie vorrebbe lasciarsi alle spalle appare come un frammento strappato a un altro film.
Ma se la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è neanche una degustazione di scotch. La linea d'azione intrapresa in vista di un riscatto umano e sociale si fa più morbida e compromissoria. Invece della lotta di classe si procede, nota beffarda non si sa quanto voluta, all'imborghesimento del sottoproletario (la bella casa, l'auto nuova, il desiderio della presentabilità - ma la cicatrice sul volto è indelebile): l'alcool da piaga sociale diventa onorata fonte di reddito (il mercato del whisky viene trattato con una certa riverenza; il sarcasmo, se c'è, è rivolto solo al facoltoso acquirente yankee privo di gusto), gli alcolici di infima lega che infestano le zone più povere della città vengono sostituiti da nettare dorato per palati fini. L'espropriazione messa ingegnosamente in atto dalla scapestrata banda di Robbie più che un anarchico 'fuck the system' si muove dalle parti della finanza creativa: rubare ai ricchi per rivendere ai ricchi e dare a se stessi, spettando poi all'iniziativa del singolo se 'sputtanarsi' il guadagnato tutto e subito o reinvestirlo in attività proficue.
Il canone loachiano è rispettato in tutto e per tutto, dall'ambientazione working class al naturalismo delle riprese (con la maggiorazione espressiva del ruvido accento scozzese) all'immediatezza recitativa (garantita spesso dalla coincidenza tra vita vera e vita recitata, come nel caso dell'attore protagonista la cui biografia ha più di un punto di contatto con quella del personaggio interpretato). A differenza di altre sue commedie, però, qui Loach sembra eliminare del tutto le occasioni di attrito per regalarsi e regalare un ottimismo sincero ma di non grande spessore, narrativamente risaputo. Nonostante gli effluvi del distillato di malto un film sobrio, troppo, potabile ma analcolico.