Drammatico

LA MUSICA DI GION

Titolo OriginaleGion Bayashi
NazioneGiappone
Anno Produzione1953
Durata85'
Sceneggiatura
Tratto dada un racconto di Matsutaro Kawaguchi
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Eiko, rimasta a 16 anni orfana di madre, per non dover più dipendere da uno zio crudele – il padre naturale si disinteressa di lei – decide di seguire le orme materne e di diventare una geisha. Si rivolge a Miyoharu, antica amica della madre e geisha lei pure, che decide di aiutarla nel proposito prendendola sotto la sua protezione. Ma la realtà della professione è molto diversa da come la ragazza immagina…

RECENSIONI

La lenta panoramica sui tetti della città di Kyoto che apre il film si conclude idealmente, alla fine dei titoli di testa, su una strada del quartiere di Gion; a partire da lì, l’inizio di ogni sequenza conoscerà un analogo movimento – a volte alluso dallo stacco di montaggio – dall’esterno (strade, cortili, giardini, patii) verso l’interno. Si tratta dunque di un procedere dello sguardo il quale avanza a svelare ciò che è privato, nascosto, occulto alla superficie. Ed è in effetti questo che Gion bayashi intende fare col suo incedere costante e implacabile: svelare una dinamica occulta, sfatare una mistificazione, denudare un tabù.


L’intreccio è scarno, ostile alla dimensione romanzesca: la storia procede lineare, con poche figure ed eventi. Lo stile è disadorno, alieno da complicati simbolismi e civetterie come da concessioni al pittoresco e alle giapponeserie d’intrattenimento.
Per giustificare quanto diciamo, basta considerare la sequenza dell’istruzione di Eiko, luogo narrativo che più di ogni altro accoglierebbe con comodità qualche pur piccola apertura al piacevole, al grazioso. Si tratta di brevissime scene in cui vediamo la ragazza mentre suona alcuni strumenti, danza, cucina, lava un vestito, pulisce la sua stanza: niente di meno accattivante e di più antifrastico rispetto alla retorica dei simboli della bellezza giapponese, di cui ha parlato l’istruttrice all’inizio della sequenza.
Pure i movimenti di macchina sono avari di arzigogoli e di spezie troppo saporite. L’inquadratura resta spesso e volentieri immobile, anche dopo che i personaggi ne sono usciti; Mizoguchi non ha voglia di inseguirli freneticamente: essi saranno comunque costretti a rivelargli ciò che chiede. Le relazioni fra i protagonisti di una scena, sovente presenti tutti insieme nell’inquadratura, sono evidenziate direttamente e con semplicità attraverso i gesti, il tono, le azioni, le reciproche posizioni e i rispettivi movimenti. L’uso sistematico della dissolvenza – in nero o incrociata – come segno d’interpunzione testimonia della fedeltà del regista ai canoni (allora) tradizionali del linguaggio cinematografico.


Il dominio del long take conosce poche concessioni (peraltro meno rare rispetto ad altri film) alle ambizioni del montaggio: in taluni passaggi, la m.d.p. è impassibile e quasi solenne nello stringere lo sguardo su un momento di sperdimento, d’incertezza, di determinazione. In altri, assistiamo a inopinati mutamenti di prospettiva cui peraltro ripugna la soggettiva (mentre sono relativamente frequenti le false soggettive), e che negano dunque allo spettatore un punto di vista privilegiato; meno che mai lo attribuiscono a una delle protagoniste.
Lo stile è dunque quello di un documentario d’invenzione; il tema, quello caro al cineasta giapponese: la condizione della donna in una cultura che, mentre si apre alla modernità (con la Costituzione del dopoguerra che ne protegge nominalmente i diritti di libertà) e al vorticoso sviluppo di marca occidentale, ne mantiene intatta la secolare subordinazione sociale.
Nel film ci si sposta spesso da un luogo all’altro, e si conversa quasi di continuo; movimento e comunicazione sono tuttavia sempre motivati dal bisogno o dalla brama di denaro, e finalizzati ad acquisirne; non a caso, forse, è quasi del tutto assente nei dialoghi la coppia campo/controcampo: non di vero confronto umano si tratta, ma dell’esplicazione di una trama di potere, che non merita l’alternanza dei punti di vista. In ognuna delle 18 sequenze in cui la pellicola può essere suddivisa, si parla di denaro; direttamente o attraverso traslati quali la garanzia che il padre di Eiko dovrebbe prestare perché la figlia possa essere istruita nella professione, o la necessità per le geisha di trovare un protettore, o la promessa in tal senso che uno dei clienti fa a Miyoharu.
Questa onnipresenza del denaro a dettare le leggi odiose dei rapporti fra le persone – e tanto più odiose quando esse si impongono a un padre nei confronti della propria figlia – ricorda il Bresson de L’argent (anche se il francese preferirà visualizzarne i concreti e ossessivi passaggi di mano). Il denaro è la funzione dei rapporti umani giocati sull’avidità, il corpo delle donne ne costituisce il veicolo.


La dissacrazione del mito della geisha, a cui Mizoguchi ha dedicato larga parte della sua opera d’artista, deve aver sortito in Giappone un effetto simile a quello che in Europa produsse la dissacrazione del mito della cortigiana gentile che si salva o muore per amore; e, non a caso, anch’essa fu condita da una robusta presenza esplicita del denaro nel tessuto narrativo. Una delle ragioni dello scandalo suscitato da Traviata fu che per la prima volta in un’opera sentimentale si parlava apertamente di beni venduti e comprati, di un uomo che vive alle spalle di una donna, di un matrimonio che salta non per (dis)amore ma per motivi di rispettabilità sociale, di un padre borghese che invocando le ragioni affettive della famiglia mira in realtà a rafforzarne il patrimonio e si pone, lui sì, contro le ragioni del cuore.
È superfluo ricordare come il tema dello sfruttamento delle donne sia legato alla biografia famigliare del regista, la cui sorella fu venduta a una casa di geisha dopo il rovescio economico patito dalla famiglia per gli azzardati progetti economici del padre. E naturalmente è facile vedere nell’inetto e cinico genitore di Eiko il padre detestato del regista; ma forse egli vi ha voluto anche duramente proiettare – attraverso il disturbo alle mani che gli rende difficile lavorare – se stesso: malato di una forma di artrite, il giovane Mizoguchi poté infatti studiare e trovare lavoro solo grazie ai buoni uffici della sorella e alle conoscenze che ella aveva acquisito col suo mestiere.


Come che sia, l’autore non si limita a ritrarre una dolorosa vicenda privata, ma punta alla messa in scena di un’iniquamacchina sociale. È noto infatti come lo statuto antropologico della condizione femminile renda le donne un formidabile “gruppo di controllo” per misurare i valori, le nevrosi, l’ordito spirituale di un’intera collettività.
E in questa messa in scena non c’è nulla di freddamente didascalico o di astrattamente programmatico: ogni snodo narrativo procede da necessità interne alla fabula e al suo contesto d’ambiente. Infatti, non c’è bisogno di calcare la mano per esibire la naturale violenza di una rete di rapporti di potere, e il noncurante adagiarvisi dei suoi protagonisti (come è riuscito a fare anche Altman, per citare un esempio recentissimo, in Gosford Park). È la grande arte realista di Mizoguchi esaltata da Godard: “si astiene da ogni sollecitazione esteriore al suo oggetto, lascia le cose presentarsi da sé senza che il pensiero intervenga altrimenti che nel cancellare le proprie tracce, dando così mille volte più efficacia a quanto sottopone alla nostra ammirazione”.
Così, i vari personaggi maschili che si muovono parassitariamente attorno alle donne (il padre, il factotum, il sensale, gli uomini d’affari) non sono mai troppo brutali o biechi – uno anzi è perfino un giovane distinto e cortese – o torbidi; lo sono quanto basta, cioè nella misura che accade di sperimentare quotidianamente. Né si insiste sul patetico nell’osservare le due eroine: se i primi piani si contano sulle dita di una sola mano, il ppp è drasticamente abolito. D’altra parte, si sa come quello di Mizoguchi non sia un cinema di personaggi, ma di fatti. Prevalgono i piani a mezza figura o a figura intera; in taluni momenti, a sottolineare la profonda solitudine – anziché la sofferenza contingente – che assurge a condizione esistenziale, la scelta cade sul campo medio.


Autentico perno morale e drammatico di questo film antispettacolare, in cui il quotidiano fa risuonare tutte le sue temibili note contro le lusinghe allettanti del sogno romantico – così riconoscerà Eiko, finalmente consapevole: “Tutto non è che menzogna. I simboli di Kyoto! La bellezza giapponese! Menzogne!” – è la figura memorabile di Miyoharu che spezzerà, per amore della giovane amica, il cerchio dell’egoismo e della rapacità nel quale ella stessa rischiava di essere coinvolta; anche se l’unico mezzo per fare questo sarà il proprio sacrificio.
Ma l’arte di Mizoguchi sta ovviamente all’opposto dell’enfasi sentimentale di tanta letteratura e di tanto cinema. Ne abbiamo già indicato ragioni ed esempi. Il regista non ha fretta, in un film pur singolarmente breve, di imporre un punto di vista o il dilemma o il dramma di un personaggio: si prende tutto il tempo necessario, imprimendo un ritmo senza acuti e libero da ogni concitazione. Se ne trae conferma osservando la sintassi dei due momenti cruciali, la ribellione di Eiko al cliente che vuole abusare di lei e il finale: il respiro del film non conosce variazioni, e frena ostinatamente la suggestione drammatica o l’involo lirico.
Neppure nei momenti più brucianti, dunque, la compostezza dello stile permette che le proprie coordinate formali implodano sotto il peso della verità che rappresentano, grazie anche all’espressività tanto più intensa quanto più sobria delle protagoniste, e in particolare di Michiyo Kogure nel ruolo della “sorella maggiore”.


V’è di più. Nel crudele ballo in maschera che è la vita – Miyoharu viene sempre mostrata, in ogni sequenza, mentre è alle prese col suo costume di scena: ora si pettina, ora si veste, ora si trucca, ora si spoglia; a un certo punto, la vediamo concentrata e silenziosa attraverso due tendine socchiuse come il sipario di un teatro – le due donne sostituiscono alla logica del contratto, basato sullo scambio di utilità materiali, la gratuità di un affetto autentico e dell’amicizia. Ivi sta indubbiamente l’unica possibilità di salvezza.
Ma, se pure di salvezza si può parlare, essa può valere solo nel rapporto a due. Sulla scena del mondo, tale possibilità percorre ancora, nella desolata concezione di Mizoguchi, le strade di quel cerimoniale feroce: nell’ultima scena, dopo che Miyoharu si è sacrificata dandosi all’uomo d’affari per evitare la rovina sua e dell’amica, dopo che si è offerta di risparmiare alla più giovane l’umiliazione della prostituzione prendendone il posto, Eiko e Miyoharu si vestono, si truccano, si cospargono il volto di biacca, escono nelle vie di Gion – il quartiere del piacere – per recarsi a intrattenere nuovi clienti.