Drammatico

LA MOGLIE DEL POLIZIOTTO

Titolo OriginaleDie Frau des Polizisten
NazioneGermania
Anno Produzione2013
Durata175'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Un film semplice. Un uomo, una donna, una bambina. Una piccola città. Un appartamento. Domeniche perfette. La storia di una giovane famiglia. L’incessante lavoro dell’amore dal quale emerge ciò che viene poi definito l’anima di un individuo. Creazione della culla d’amore che coltiva l’anima in crescita della bambina. Affetto e distanza. La carriera del padre nel locale distretto di polizia. E la madre dedita esclusivamente ad accudire la figlia. Violenza tra marito e moglie. Noi guardiamo questa donna mentre affonda sempre più. Vediamo ogni suo estremo sforzo per salvare l’anima della bambina, per mantenerla intatta, per farla crescere. Per insegnare l’amore alla figlia.

RECENSIONI

L’unico vero cineasta formalista rimasto nel XXI secolo è Philip Groning. Non giova ad alcuno (di)mostrare il contenuto soggiacente, sinuoso e mai urlato, de La moglie del poliziotto, premio speciale della giuria all’ultimo Festival di Venezia: cioè quanto sia banale, possibile, vicina, la violenza subita dalla donna in famiglia. Chiuso lo scrigno tematico ecco le gigantesche proporzioni espressive di un autore fattosi le ossa tra inutili filmetti corali (L’amour, l’argent, l’amour - 2001) e infine salito agli onori delle cronache nella categoria giornalistica sbuffante del “film troppo lungo” con Il Grande Silenzio (a Venezia nel 2005): tre ore di silenziosa vita all’interno di un monastero francese pencolante tra cellette, novene e rotolarsi di frati sulla neve. Dopo un capolavoro assoluto di sguardo, passione e pazienza, Groning ha bissato con La moglie del poliziotto e gli oramai celebri 59 capitoli per 170 minuti di proiezione. Formalista ossessivo il nostro, perché il segmento ‘capitolo’ non ha senso alcuno a livello temporale, ma viene usato e imposto per separare (fine capitolo 2, inizio capitolo 3 – fine capitolo 3, inizio capitolo 4, e via così fino in fondo) una sequenza (se la memoria non m’inganna, senza stacchi di montaggio all’interno della singola scena) dall’altra, per far uscire, respirare e far di nuovo rientrare, lo spettatore nel racconto che osa cancellare lentamente ogni appiglio materiale, filosofico ed extraconiugale oltre le quattro mura domestiche dei protagonisti. L’ossessione manifesta per la forma deborda in questa durata atipica del film che serve tutta, secondo dopo secondo, fotogramma dopo fotogramma. Perché quella famosa violenza domestica, il tema succitato, diventa tangibile almeno – dico almeno, forse ne servivano di più – nelle quasi tre ore di pellicola, pardon di pixel. Questo è il punto centrale dell’opera: la dilatazione della dimensione temporale, la sua scomposizione in frammenti, alcuni addirittura sorta di stacco canoro surreale della famigliola cantante (delirio supremo della normalità), altri con l’obiettivo puntato addosso ai corpi (le braccia tumefatte della madre, il candore fanciullesco, animali morti brutalmente), per ottenere un risultato assolutamente rivoluzionario in termini di forma.
Un lavoro di dilatazione temporale che oltre ad essere applicato all’intera opera riappare in alcuni capitoli sotto forma di un prolungato ampliamento  della dimensione tempo della singola inquadratura: si prenda ad esempio il lento e millimetrico indietreggiare della mdp allorquando madre e figlia sono immerse, nude, nella vasca da bagno. La sensazione è quella di allontanamento dello sguardo e di una parallelo e contemporaneo allargamento delle dimensioni della vasca e quindi dei corpi al centro del quadro. Qualche minuto di camera fissa, di spiazzante ricerca espressiva e di insistente scavo nella percezione del tempo passato, che per converso, aggiunge costrutto all’assunto iniziale e induce ad una riflessione altrettanto approfondita sulla standardizzazione della durata generale dell’opera filmica. Quando al Torino Film Festival alcuni anni fa si celebrava il cinema filippino e si vedevano per intero le opere di Lav Diaz, anche da 10 ore come Evolution of a Filipino Family - 2004, si era ragionato attorno alla durata del film e alla sua artificiosa, riduttiva e impositiva misura dei 90 minuti. Una scelta commerciale, patrocinata dalla Hollywood anni venti/trenta, totalmente arbitraria, dettata dalla suddivisione del tempo in base al lavoro necessario per mantenere a pieno ritmo i presupposti della società capitalista. Questo è il modus operandi contrario di Philip Groning, la sua dimessa ribellione estetica alla stereotipizzazione delle tematiche sociali nel cinema. Il dio cinematografico di questa Germania produttiva (indipendente?) ce lo preservi a lungo.