TRAMA
Virgil Oldman, esperto d’arte e battitore d’asta, è un uomo freddo che vive al riparo dai sentimenti. Quando una donna misteriosa lo invita nella sua villa per effettuare una valutazione la sua vita avrà una svolta.
RECENSIONI
Scorrendo la filmografia di Tornatore si nota come - accanto a una vena nostalgico-cinefila (Nuovo Cinema Paradiso, L’uomo delle stelle, Malena), intimista (Stanno tutti bene), kolossalista (La leggenda del pianista sull’Oceano, Baaria) - ci sia una vocazione al mystery, sia esso claustrofobico-kafkiano (Una pura formalità) o più spiccatamente psicologico (La sconosciuta) che, periodicamente, il regista torna a frequentare. Il protagonista de La migliore offerta è un battitore d’asta pieno di idiosincrasie, manie, piccole e grandi superstizioni, un uomo che non si mischia col mondo, avendo paura di sporcarcisi le mani (alla lettera); un essere distaccato che ama idealmente La Donna, ma tiene a distanza le donne e la loro e(/a)ffettività. Virgil Oldman è, in definitiva, un personaggio ipertratteggiato. Perché? La delineazione marcata delle sue caratteristiche è strumentale, ma non, come si potrebbe pensare, alla creazione di una figura persuasiva: serve a indottrinare lo spettatore, a metterlo subito nelle condizioni di comprendere che è su quel campo che si giocherà la partita del mistero, mistero che si muove su elementi talmente risicati e su temi così insistentemente declinati da dissiparsi praticamente subito. I canoni sono quelli hitchcockiani (Vertigo innanzi tutto: le fobie del protagonista che innescano e aprono la via all’inganno; l’inseguimento di un’immagine amorosa prima, la sua ricostruzione artificiale poi; il voyeurismo), ma mischiati a certi toni da cupo giallo di provincia (l’Avati horror, Un tranquillo posto in campagna di Petri) o a certe atmosfere marce e decadenti di molto cinema italiano di genere, soprattutto anni 70 (la grande casa fatiscente e la presenza misteriosa al di là della porta chiusa rievocano Anima persa di Dino Risi).
Ce la mette tutta Tornatore a costruire un intrigo complesso in cui stanze segrete fanno eco a segrete passioni (la collezione di volti di donna) e in cui enigmi - reali e artefatti (la dialettica vero/falso è sottolineata ad nauseam) - si inseguono, ma l’impianto rimane fragilissimo e le situazioni disposte in campo talmente posticce (l’amicizia con il giovane Robert) da metterne a nudo i già ovvi sottintesi. Le matafore, altro vezzo col quale l’autore ama gingillarsi, sono gridate (l’automa), i simboli ingenui (il nome del protagonista, Virgil, che suona come virgin; associamolo a Oldman e abbiamo una didascalia), la dialogistica è rozza e palesemente orientata, i personaggi di contorno (Billy, interpretato da Donald Sutherland) poco più che abbozzi a puntellare le crepe.
Il film, complice una messinscena presuntuosa, sviluppa ad abundantiam (la durata è punitiva) una tramina che tanto più zoppica quanto più vorrebbe suonare la tastiera dell'ambiguità e le corde del rebus, con l'accumulo di doppie e triple verità. Virgil, manipolato, smarrisce il sé - inautentico quanto si vuole, ma faticosamente costruito - e perde la strada: quando crede di tuffarsi nell'esistenza vera scopre, a sue spese, che è tutta una finzione. In grado di fare un'expertise su un quadro con una semplice occhiata, di ordire truffe insospettabili pur di incrementare la collezione rinchiusa nel suo caveau, si rivela cieco e ingenuo quando si tratta di Vita e di Amore, cose di cui non sa nulla. La Follia lo attende dietro l'angolo. Quello di Tornatore, che qui rinuncia alla solita regia altisonante, per un più discreto ma non meno effettato registro, è insomma cinema tragicamente scoperto (per non dire sguarnito) nelle sue intenzioni e La migliore offerta (roboante produzione Warner Bros da quattordici milioni di euro, girata in inglese, con star vere - Rush - e presunte - Sturgess -) esangue catalogo di azzardi innocui e tentativi alti, tutti, più o meno, falliti.
Come un battitore d’asta imbonitore, Giuseppe Tornatore narra in modo sensazionalistico personaggi ed eventi che bastavano a se stessi per fare scena. Ha per mano un racconto con tutte le carte in regola per essere restituito in modo raffinato, elegante, sottile: evidentemente, non è un estimatore di racconti gotici come La Prima Moglie-Rebecca, oppure, con un soggetto che avrebbe potuto partorire Tiziano Sclavi, ha semplicemente mal calibrato i registri nel momento in cui esplora quasi esclusivamente le matrici allegoriche ed introspettive. Ultimamente la sua scrittura è vittima di una regressione progressiva, vedere Baarìa: sempre più dilettantistica, atta a stupire con un compitino scolastico dove parabole, simbolismi, metafore e paralleli seguono la legenda dei loro incastri, sacrificando credibilità e sobrietà. È passato poco tempo dal pregevole La Sconosciuta, parimenti incentrato sul mistero di una donna e ambientato in una città mitteleuropea indefinita (qui brani di Trieste, Parma, Milano, Vienna, Roma, Praga e Bolzano), ma in questo caso è assente la misura (vedi la figura della nana) e tutto (com)pare assurdo, perché limature e scene meno marcate avrebbero restituito un’opera di tutto rispetto, rivelazione finale esclusa, irricevibile e simile a quelle raffazzonate di tanti thriller gialli anni ottanta/novanta nati sulla scia di Doppio Taglio, dove il colpo di scena ribaltava e rinnegava tutto. Tutte le allegorie giocano sul concetto di falso e il film di Tornatore lo indossa alla perfezione con l’arte simulata.