TRAMA
La madre di Icare scompare in seguito a un incidente domestico. Il bambino viene accolto dall’istituto “Les Fontaines”.
RECENSIONI
A prima vista La mia vita da Zucchina è talmente 'semplice' da sfiorare il cliché: un piccolo eroe del quotidiano che (ri)conquista una famiglia senza incontrare sul suo sentiero ostacoli ardui, mentre una parte della sua felicità si riverbera, con la stessa facilità, sui suoi piccoli compagni di orfanotrofio. Ma l'apparenza, ovviamente, inganna chi non abbia tempo e voglia di osservarla, perché il film di Barras (esordiente nel lungometraggio) e della sceneggiatrice Scianna è tutto meno che una favoletta consolatoria. Il tema dell'infanzia violata riceve dalla tecnica della stop-motion una dimensione ideale: la prudenza, la meticolosità di realizzazione che la scelta comporta alludono di per se stesse alla cautela con cui si muovono questi ragazzi negati, costretti a crescere precocemente, ma non per questo ansiosi di liberarsi della febbre di scoperta propria della loro età. E nel film ogni quadro è una scoperta: la materializzazione de 'Les Fontaines', una gita sulla neve vista attraverso gli occhiali rosa di un'impossibile 'normalità', la casa di Raymond, incongruo fiore sbocciato quasi per sbaglio nell'asfittico degrado di una periferia come tante sono solo tre dei mille esempi possibili che si affollano nel film, senza soffocarne l'essenzialità, anzi nutrendola del solo elemento indispensabile, la bellezza. La scelta di raccontare una vicenda così terribile ricorrendo ai pupazzi, anziché ad attori in carne ed ossa, la rende al tempo stesso elegiaca e lieve: viene letteralmente plasmato un mondo in cui tutto è possibile, dalla morte della madre del protagonista (esilarante quanto imprevedibile, ben più che nel romanzo di partenza) ai 'casi' che popolano l'orfanotrofio, rassegna di colpi inferti all'infanzia che, per le caratteristiche proprie del film di animazione, diventano altrettanti simboli, tragici quanto vividi, di valenza universale.
Al tempo stesso La mia vita da Zucchina è, più che un romanzo di formazione, un racconto di evasione: la ripetizione di un singolo gesto (le lattine scartate dalla madre alcolizzata e accumulate da Icare) determina l'uscita del bambino dalla prigione della soffitta, lo conduce agli orizzonti in ogni senso indefiniti dell'orfanotrofio e della montagna, finché non subentra un nuovo spazio circoscritto, non più carcere ma rifugio, perché scelto e non imposto dalle circostanze, dalle abitudini, dal sangue (corollario: la zia di Camille, prototipo di tutto quello che la società considera 'decoroso', ne è in realtà la perfetta antitesi). Il piccolo Icaro cerca il padre assente nel cielo, ma la soluzione dei suoi guai sarà, al contrario, nella terra, nel suo essere Zucchina, capace di mettere radici in un terreno del tutto nuovo, o per meglio dire rinnovato da un amore appena sopito (quello di Raymond per il figlio perduto), il tutto mentre la natura, con il suo inesausto rinnovarsi (le stagioni, la nascita del figlio di Rosy e Paul), relativizza e tempera le sofferenze degli esseri umani. La consapevolezza del limite (la possibilità infinita del cielo, la vista dalla finestra della propria camera) non può che rendere più intensa la gioia.