TRAMA
Alexandre è un giovane e pigro disoccupato francese che trascorre le sue giornate sorseggiando caffè a Saint-Germain-des-Prés. Alexandre non ha problemi a farsi mantenere dalla più matura Marie, che ha una piccola boutique, con cui intrattiene una relazione di tipo aperto.
RECENSIONI
«Due cose sono rimaste fuori dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo: il diritto di contraddirsi e il diritto di andarsene»
Oggetto leggendario, di culto, maledetto come pochi altri, La maman et la putain è nella sua torrenzialità free from uno dei film più importanti della storia del cinema fino a rendere la trattazione esaustiva impresa non solo impossibile, soprattutto insensata. Quelli che seguono sono appunti attorno al primo - di due - lungometraggio di fiction firmato Jean Eustache.
Appunti attorno al mito, innanzitutto, perché pochi film hanno una storia e un'aura tanto densa e nera. Eustache arriva al cinema per la porta principale della nouvelle vague ma attraverso vie decisamente traverse. A differenza degli altri giovani turchi non è di estrazione borghese ma pienamente proletaria - anche per questo il suo dandysmo rimane orgogliosamente pieno di spasmi anti-intellettuali e anti radical chic ante litteram, come nella tirata feroce dell'alter ego Léaud contro La classe operaia va in Paradiso («Preferisco guardare la tv, mostrano la loro stupidità. È più onesto»). Lavora come elettricista quando, grazie alla moglie segretaria ai Cahiers, incontra Godard, Rivette, Rohmer, Renoir, Léaud e comincia a collaborarci. Splendidi documentari televisivi e cortometraggi preludono all'esordio vero e proprio. La maman et la putain atterra al festival di Cannes, vince il Gran Premio pur disgustando la presidente di giuria Ingrid Bergman, viene attaccato da destra e da sinistra, nasce da una situazione autobiografica - la relazione extraconiugale del regista con Françoise Lebrun, Veronika nel film - e contribuisce al suicidio della moglie, un colpo da cui Eustache non si riprenderà finché, dopo otto anni di alcolismo e depressione, si suiciderà a sua volta, a 43 anni. Il film sparisce dalla circolazione, anche per via dei sensi di colpa dell'autore, e rimarrà una visione carbonara e un santo graal cinefilo fino all'impeccabile restauro e alla nuova distribuzione in sala di quest'anno.
Come aveva fatto Fellini con Mastroiani in 8 e 1/2, Eustache prende Jean-Pierre Léaud, l'icona più sacra della nouvelle vague, e lo plasma a propria immagine e somiglianza - fisica, innanzitutto: i foulard, gli occhiali da sole con lenti a specchio, l'acconciatura fluente e scapigliata, la sigaretta sempre accesa e la bottiglia sempre pronta. È la prima e più immediatamente evidente delle tante confusioni, sovrapposizioni che innervano La maman et la putain. La poetica del soggetto è peculiare nel cinema di Jean Eustache. Che si tratti della nonna amatissima (Numero Zero), di un maiale (Le cochon) o, appunto, del proprio alter ego (come anche nell'autobiografia adolescenziale Mes petites amoureuses, un altro capolavoro) il soggetto è onnipresente ma soggetto a polverizzazione. La prima inquadratura è Léaud che parla allo specchio (ricorda qualcosa?) ma il suo personaggio è impalpabile e totalmente antieroico, il suo sogno "poter parlare con le parole degli altri". È un dandy debosciato senza occupazione e occupazioni, è alla deriva (esistenziale) e fa derive (situazioniste) nella città. È un narcisista patologico che non sa smettere di analizzare e filosofeggiare, paranoico fino al delirio da cui alcuni dei momenti più divertenti del film, la versione comica dello straniero di Camus in un paesaggio integralmente esistenzialista. Continua a parlare perché dichiara che la logorrea è uguale al silenzio. La sceneggiatura è uno dei motivi per cui parliamo di un film unico. Secondo la leggenda, si trattava di un faldone di trecento pagine tradotto in quasi quattro ore di monologhi e dialoghi a ruota libera e sempre densissimi che piegano la percezione del metraggio in un tempo-durata compresso senza un attimo di pausa o noia. I protagonisti recitano, si recitano, si ripetono, si citano in meta-discorso, rompono la quarta parete e qualsiasi eventuale velleità naturalista. Il film parlatissimo si interrompe solo per pochi momenti musicali, perciò investiti dal compito di dare un senso trascendente benché indeterminato (il "finale giusto" è Marie desolata sul letto che ascolta Les amants de Paris di Edith Piaf ma Eustache vuole sfregiare il capolavoro e ci aggiunge come una postilla punk il vomito di Veronika).
Abbiamo detto torrenziale e free form: il film fluisce rifiutando la struttura a favore del ritmo, inglobando ogni disturbo ambientale, usando i tic di Léaud, mischiando i registri, concedendosi digressioni saggistiche sugli argomenti più disparati, da Bernanos a Murnau, da Borges - la "setta della noia" come modello esistenziale - a Fernandel e sparando a zero sui venerati maestri (Marcel Carné) quanto sugli eroi contestatari (per Sartre la dose più generosa di fiele), costruendo un'opera curiosamente coltissima e anti-intellettuale. Per inciso non sappiamo se Nanni Moretti abbia visto a tempo debito La maman et la putain ma sembra dovergli tutto, tanto per la forma filmica quanto per i caratteri del protagonista. "Volevo vedere strade e persone". Il ritmo del film è dettato dal ritmo degli ambienti, dal rapporto mutevole tra interni e esterni È un film assolutamente parigino che si svolge dans la rue e tra i tavoli di caffè e ristoranti oppure dentro gli appartamenti - quello della maman dove Alexandre vive a scrocco, quello dell'amico un po' nazista e la stanza dell'amante-infermiera - e man mano che il film muove verso la concentrazione drammatica si sposta da prevalentemente en plein air verso lo spazio chiuso e claustrofobico, come ne La mia notte con Maude o in Bergman. Il movimento dal fuori al dentro non può inoltre non far pensare al movimento del riflusso post-'68 dalla dimensione collettiva verso l'atomizzazione borghese.
Lo spaesamento esistenzialista del protagonista, il suo cinismo e nichilismo sotto i quali emerge a tratti una visione apocalittica del mondo, non può spiegarsi omettendo il suo ruolo catalizzatore di figlio di un momento storico preciso: il riflusso post-sessantottino. Non è un caso che i rarissimi momenti di trasporto lirico vengano ricordando il Maggio e gli eventi successivi, definiti "una frattura nella realtà", identificati come l'esplosione di possibilità che furono e a cui non poteva che seguire il trauma del disincanto e del riassorbimento: Sartre, l'eroe del Sessantotto, compare come impostore alcolizzato negli stessi bar dei personaggi. La maman et la putain, dando ampi spunti a entrambi, è stato attaccato, boicottato da destra e da sinistra: nell'assoluta ambiguità ideologica, nel ritratto per nulla edificante, nella soppressione dell'asse morale sta un'altra ragione della sua grandezza. Innanzitutto si parte dall'assunto che il protagonista come alter ego sia portavoce dell'autore - ma potrebbe tranquillamente non esserlo e soprattutto cosa importa? - e inoltre diamo per scontato che il personaggio sia portavoce di se stesso dimenticando la polverizzazione dell'io secondo Eustache. Siamo invece in un regime di provocazione continua. È un film esplicito e audace, sovversivo in fatto di rappresentazione del sesso anche per gli standard attuali, è un film che tratta la non monogamia - anzi, parliamo come mangiamo se mangiamo baguette e croissant: il mènage à trois, la partouze - con la naturalezza di chi ha abolito l'asse morale. Al contempo ci sono tirate antiabortiste, antifemministe, lunghi monologhi nostalgici per il tempo in cui le donne correvano dietro alle uniformi, si fa umorismo sugli handicap fisici e c'è anche un momento di ambigua fascinazione per l'estetica nazista. Si tratta della visione del mondo conservatrice dell'autore o del personaggio? Del gusto per l'épater le bourgeois di entrambi? Oppure della vox populi della Francia gollista sotto Pompidou? Non è dato saperlo. Per fortuna.
Una delle cifre registiche di Eustache (vedi Numero Zero) è la camera appoggiata con soggetto a tre quarti - quasi dei "tatami shot", è stato notato. La presunta apologia antiabortista è in realtà l'ultimo lunghissimo, intensissimo monologo di Veronika che certifica la piena autonomia e tridimensionalità dei personaggi femminili in un film potenzialmente, forse superficialmente, tacciabile di antifemminismo. Inoltre la distruzione del soggetto protagonista passa dalla graduale esclusione di Léaud dai dialoghi e dalle interazioni da parte delle due donne - entrambe sia maman che putain a ulteriore smottamento degli stereotipi che il titolo suggerisce. Le due amanti spingono Alexandre ai margini della stanza e del film e verso la demascolinizzazione truccandolo e suggerendogli di farsi sodomizzare. La maman et la putain è un torrente in piena dentro il quale passa di tutto e che travolge tutto, che dà un senso di pieno, di horror vacui, di dépense e insieme di vuoto zen, che edifica per smerdare (il già citato vomito nel secchio un attimo prima dei titoli di coda). È un'opera mondo sul riflusso, l'amore, l'assurdo e la procreazione. È anche l'opera di un dandy che ha il suo ambiente naturale nel paradosso. Impossibile vederlo, come capitato a molti, per la prima volta al cinema grazie alla riedizione e quindi con una fruizione che, inconsciamente, lo mette al tempo presente e a confronto con i film attuali senza uscire dalla sala come Nora Desmond: «I am big, it's the pictures that got small». È un'esperienza torrenziale, quattro ore di dialoghi monologhi scene e la più assoluta libertà, il più titanico sregolamento da ogni vincolo formale, diegetico o morale, dallo stato di minorità nei confronti della struttura, del messaggio, della conclusione, della chiarezza e tutte le virtù da tinello che imperversano. Qualcosa di gigantesco.