Horror

LA MALEDIZIONE

Titolo OriginaleAnd now the screaming starts
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione1973
Genere
Durata87'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

1785: la sposa del nobile Fengriffen viene stuprata da un fantasma la notte di nozze. Il marito la crede pazza.

RECENSIONI

Il merito maggiore di quest’opera della "Amicus Productions" (Milton Subotsky e Max J. Rosenberg, reduci dal successo di La Morte Dietro il Cancello di Baker) è stato quello di portare sullo schermo il terribile racconto di David Case ("Fengriffen"), dotato scrittore newyorchese contemporaneo, emulo della grande stagione del romanzo gotico: sangue, orrore, volti sinistri, occulto, mistero e follia si levano ancora dalle tombe della campagna inglese del XVIII secolo per spaventare a morte i vivi. L'innocente vergine di turno subisce l'anatema lanciato dai servi contro i padroni ingiusti, nostalgici dello "ius primae noctis". La stessa carne, amputata (la mano), cerca vendetta sfondando l'effigie del proprio boia (pura paura), soffocando chiunque tenti di intralciarne il piano di resurrezione. Il castello maledetto, immerso nella nebbia e in tonalità spente (Baker, saggiamente, evita di riciclare i colori accesi del ciclo "Hammer"), pullula di esseri senza lingua ed orecchie, (ma) muti perché atterriti, capeggiati da uno scettico e stolido (e mal interpretato) padrone di casa. La tomba, profanata nel finale, libera la ragione dai suoi orpelli ancorati alla scienza, scoperchia una notte buia del passato dove il Male, fra dissolutezze orgiastiche e violenze inaudite, oltrepassa ogni limite. Il fantasma senza occhi (il passato ed il presente concorrono a scolpirne il volto) è approssimativamente truccato dal team tecnico e attraversa gli incubi esautorandoli, anziché intensificarli, con la sua goffa figura. Baker s'appoggia molto alla figuratività ed al commento sonoro di Douglas Gamley, con note melodrammatiche avvolgenti ed invadenti, nel tentativo di (s)comunicare i dialoghi e le azioni di una sceneggiatura oltremodo avara, svogliatamente superficiale nel non lambire i labili confini fra realtà e fantasia, fra incubo e subconscio, fra gioia della maternità e delirio della gravidanza (Rosemary's Baby docet). Dal canto suo, il regista non riesce ad "isolare" l'angoscia della protagonista, lascia cadere sgraziate controfigure (la cameriera giù per le scale) ma si risveglia dal torpore del mezzadro in affitto all'entrata in scena, nella seconda parte, del grande Peter Cushing: il racconto si fa sempre più inquietante e sorprendente, rendendo indelebile il segno della vergogna stretto al seno da una madre rassegnata, l’inventiva raggiunge lo zenit con l’insolito e raffinato piano sequenza in chiusura.