
TRAMA
Luca Canali, un mezzano senza né arte né parte, viene ingiustamente coinvolto in un losco affare tra organizzazioni di stampo mafioso di grosso calibro operanti tra Milano e New York. Quando si vede assassinare ex-moglie e figlia, comincia a reagire con le dovute (cattive) maniere.
RECENSIONI
Che Tarantino sia uno dei più grandi ed accaniti estimatori di Fernando Di Leo (basterebbe l’esplicita citazione tratta da Milano calibro 9 della famigerata scena della tortura col rasoio di Le iene ad attestarlo) è ormai un segreto di Pulcinella, come per altro risulta fuor di dubbio il fatto che per certificare la stima autoriale nei confronti di Di Leo non abbiamo bisogno degli urlati suggerimenti del talentuoso cineasta del Tennessee poiché la giusta rivalutazione della sua cinematografia è operazione che, con tutto il rispetto, prescinde da Tarantino (vedasi riviste note per la loro acribia filologica e competenza critica quali Nocturno, Amarcord etc.; ora, per altro, arriva anche la consacrazione ghezziana di Fuoriorario). La mala ordina, che si inserisce come secondo episodio in quella che è comunemente denominata “trilogia del milieu” insieme a Milano calibro 9, forse il capolavoro di Di Leo, e Il boss, tutti girati nei primissimi ’70, rilegge in maniera del tutto personale da una parte la letteratura nera di Giorgio Scerbanenco (Milano calibro 9 è proprio il titolo del racconto da cui Di Leo prende lo spunto per La mala ordina, in un curioso gioco di scambi) e dall’altra il cinema noir americano di ascendenza hustoniana e siegeliana (più che quello francese, melvilleiano, molto più romantico e metafisico), dando vita a un film di notevole levatura estetica contrassegnato da un uso felicemente dirompente del montaggio, favorito da una sceneggiatura (dello stesso Di Leo insieme a Augusto Finocchi e Ingo Hermess) memore degli stilemi narrativi di certo western italiano dall’incedere notoriamente difforme (Di Leo, oltre ad aver sceneggiato Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più di Leone e i due Ringo di Tessari, aveva impugnato la penna per altri 40 western circa più o meno noti) e piuttosto violento. Il ritmo che incalza di sequenza in sequenza (alcune, formidabili, spericolate, sono davvero da antologia come l’inseguimento implacato e implacabile al furgone, o il redde rationem finale nel cimitero delle auto) è di sicuro uno degli elementi più decisi della grammatica cinematografica dileiana, così come la descrizione appassionata, quasi morbosa, degli ambienti malavitosi, e, più in generale, di una geografia cittadina abitata da una fauna (sotto)metropolitana quasi verista (tipica visione à la Scerbanenco). Di Leo, pur immerso nella sua sordida storia di piccola e grande criminalità in cui viene descritta la traiettoria tragica, da epos omerico, dell’esistenza di uno squallido ma tutto sommato simpatico magnaccia della zona di Parco Lambro che diventa giustiziere con tanto di ethos da eroe classico, non trascura neppure il coté sociologico, contestualizzando il suo plot in una Milano trasudante riverberi anarcoidi e “contestazionari” (non dimentichiamo i suoi validissimi precedenti, Brucia ragazzo brucia e I ragazzi del massacro che offrivano, tra le altre cose, un’analisi del quadro sociale degna degli Antonioni, dei Pasolini, dei Visconti e compagnia filmante, e ricordiamoci pure della sceneggiatura di un'altra interessante pellicola a tal riguardo che è Liberi, armati, pericolosi di Romolo Guerrieri, altro efficace spaccato della Milano degli anni ‘70) con quelle folgoranti, psichedeliche, sghembe inquadrature che debordano di colore nelle discoteche e nei party casalinghi (in cui riusciamo addirittura a scorgere fulminee comparsate di Renato Zero). Inoltre, a condire ulteriormente la pietanza, le facce straordinarie di un agguerritissimo e sudatissimo Adorf, di Henry Silva (che rincontreremo neIl boss, Razza violenta e Killer vs Killers, l’ultimo film di Di Leo mai distribuito), di Woody Stroode (altro volto che ricorrerà con una certa frequenza nella filmografia del nostro), Adolfo Celi, Cyril Cusack in un delizioso cameo iniziale e Femi Benussi, splendida ninfa nuda e peripatetica, almeno nella versione integrale del film.
