TRAMA
Il peso della crisi economica fa impazzire Jeffrey che uccide la moglie e scappa con le due figlie Victoria e Lily. La troppa velocità manda fuoristrada l’auto nella quale viaggiano, facendola precipitare in un bosco. Trovando rifugio in una casa abbandonata, Jeffrey, in preda al pianto, decide di uccidere le figlie ma l’intervento di una strana creatura evita il peggio. Passano cinque anni e delle bambine non si ha più traccia fino a quando non vengono ritrovate da una perlustrazione finanziata dal loro zio Luke. Cinque anni sono però tanti e le bambine sono molto cambiate. E con loro c’è Mama…
RECENSIONI
Il vero orrore è la realtà, in un padre uxoricida che spalanca violentemente la porta e fa sussultare la piccola Victoria, o nella forsennata corsa in automobile prima del precipizio, si condensa tutto nelle sequenze iniziali de La Madre per poi immergersi in una fiaba cauterizzante, il cui scopo è, nel ribaltamento di genere, ripristinare un nucleo (trans)familiare lacerato. Perché Mama, la banshee che protegge le sue due nuove bambine, pur mantenendo tutte le coordinate del mostro, influenzate palesemente dagli spettri tormentati del J-Horror, è un guardiano protettivo, una rielaborazione immaginifica di una figura materna mancante e per questo necessaria. In tempo di crisi (economica e non solo) per cauterizzare la ferita che ci affligge e smembra il nostro nido (il portale purulento che collega Helvetia alla nuova casa), ci vuole la dolce disperazione di un fantasma nel quale rispecchiarsi.
Il rispecchiamento è possibile grazie alle due piccole orfane, la cui iterazione con Mama si differenzia progressivamente. Da una parte Victoria riacquisisce un contatto diretto con il mondo che la circonda (gli occhiali) e ripristina a piccoli passi la norma dell’istituzione familiare, dall’altra Lily si affida all’unico orizzonte conosciuto, quello soprannaturale e dell’immaginazione. Non è un caso che proprio quest’ultima sia la medium principale con Mama, nel suo relazionarsi con il fuoricampo e quindi sempre al di fuori delle quattro mura, oltre a mantenere un’indole da ragazzo selvaggio di difficile adattamento.
Saranno questi due approcci, sospinti solo ed esclusivamente da una pura esigenza affettiva e risolutoria, e lontani dalle rispettive deformazioni adulte (la zia Jean e il Dr. Dreyfuss), ad integrare questa lezione karmica. La stessa Mama, nell’uccidere il padre delle bambine per impedirne l’omicidio, cerca di estirpare la colpa della quale si era macchiata in vita. Un tormento che va ben oltre alla semplice azione violenta, poiché dietro di essa si nasconde la dolorosa allegoria di cancellare una prospettiva, e quindi un futuro, alla generazione che verrà. Non poteva esserci sublimazione più contemporanea che il negare uno sguardo ai (nostri) figli, in quell’atroce atto che i due genitori compiono prima di porre fine alle loro vite (togliere gli occhiali a Victoria e coprire il volto del neonato). Questo illusorio atto di protezione è il grande errore da correggere, l’enorme mancanza di responsabilità. Solo gli occhi innocenti di Lily, oltre la paura e oltre la maschera mostruosa della colpa, senza bisogno di alcuna mediazione e comprensione, possono trasformare un bozzolo morto in una farfalla di nuova speranza.
Opera prima di Andrés Muschietti ispirata all'omonimo cortometraggio da lui realizzato nel 2008, Mama ha il pregio di aderire con fresca coerenza agli archetipi dell'horror, stemperandoli in un'atmosfera fiabesca che esorcizza la paura alla radice. Tutti i riferimenti riconoscibili, dallastrazione di un certo cinema orientale, all'uso concreto degli spazi della haunted house con i suoi fenomeni poltergeist e le allucinazioni ipnagogiche, sono filtrati da uninquietudine che decresce progressivamente. Lo spettatore familiarizza sempre di più con l'universo rappresentato, quasi rassicurato da un pericolo che non sussiste, che ribalta completamente i classici stereotipi della creatura infestante in virtù di una fragile compassione. Questa è l'operazione lodevole e il suggestivo meccanismo d'identificazione alla base de La Madre, un'opera alla quale si può perdonare qualche pasticcio digitale o un personaggio femminile (Annabel) campato per aria, anche perché Muschietti sa il fatto suo, mastica con agevolezza il genere (suggestioni daL'Esorcista fino a Paranormal Activity) e si concede alcuni movimenti di camera di tutto rispetto (lo split screen interno con Lily che gioca con la coperta).
Aspettiamo una conferma futura. Fiduciosi.
Guillermo Del Toro, dopo aver visto il suo cortometraggio Mamà (2008) girato in piano sequenza, sponsorizza l’esordio nel lungo del naturalizzato spagnolo, nato in Argentina e pubblicitario Andrés Muschietti che, modificato il nome in Andy, sfrutta la produzione dal respiro internazionale per attirare divi anglosassoni. Il cortometraggio si limitava a dipingere due bambine spaventate sotto l’ala di una madre fantasma e viene espanso, purtroppo, in un racconto di spettri alla giapponese, con le consuete traiettorie dello spirito da sedare una volta trovato il motivo del suo vagare. A seguire, le Samara di turno con terrorizzanti movimenti a scatti (qui sono “manipolate” le movenze delle due bambine quando ancora “selvagge”). A fronte di ciò, però, Andrés-Andy e la sorella Barbara (sceneggiatrice) inventano un finale per nulla risaputo, coraggioso, crudele per quanto addolcito dall’amore che lega vittima e carnefice, cosa che il regista coglie molto bene nel filmare le espressioni della piccola Isabelle Nélisse, straordinaria anche in un’altra scena difficile da dimenticare, quella dove un’insolita Jessica Chastain tatuata, rocker e con capelli neri a caschetto, la abbraccia fino a cambiarle lo sguardo da belva in difensiva. Per tutto il film, invero, si notano i germi di un talento non convenzionale: vedere, anche, la prima scena in cui Muschietti inventa un’inquadratura a macchina fissa con cui riprende più porzioni dell’edificio e, scorgendo tutti gli attori in campo, allo spettatore è rivelato che la piccola Lilly sta giocando con “madre” (Mama). Opinabile affidare alla sola CGI la creazione del “mostro”, per quanto coreografato sulle danze di Javier Botet e effigiato dal regista come un Modigliani (ma potrebbe essere l’Urlo di Munch) con la voce di Jane Moffat (che interpreta l’odioso personaggio che, nel racconto, vuole portare via le bambine alla coppia).