Drammatico

LA MACCHIA UMANA

Titolo OriginaleThe Human Stain
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2003
Durata106'
Sceneggiatura
Tratto dadall'omonimo romanzo di Philip Roth
Scenografia
Costumi

TRAMA

1998: all’epoca dello scandalo sessuale che porta all’impeachment del presidente Clinton il professore universitario Coleman Silk deve fronteggiare un’ingiusta accusa di razzismo che lo porta all’allontanamento dal college. Scomparsa la moglie, la sua vita, che nasconde un segreto seppellito per anni, viene segnata fatalmente da due incontri: quello con lo scrittore Nathan Zuckerman e quello con Faunia, una donna molto più giovane di lui.

RECENSIONI

Cominciamo con una premessa che non c'entra nulla: non essendo mai stato un ammiratore di Philip Roth (che il Bellucci mi perdoni) non ho letto il romanzo dal quale è tratto il film (lo immagino di gran lunga migliore). Si è parlato, per THE HUMAN STAIN, di ritorno alla solidità del cinema degli anni 60 e 70 e un'impressione rètro fortissima l'ho avuta anche io. Nei primi 5 minuti. Poi la consueta prospettiva rothiana veniva piegata dal regista in drammone psicologico prima e in teatro del vaniloquio poi. THE HUMAN STAIN propone in oridine sparso: conflitti di classe, tormenti legati alla razza, al sesso, alla religione, a una vita costruita sulla menzogna. Fanno da contorno: riflessioni sulla correttezza politica ("un ossimoro" si dice), fulminea  aneddotica sull'affaire Clinton (tanto per far capire in quale epoca si svolgono i fatti), l'integrazione e l'affermazione dell'individuo nella società americana (cenni). Conseguenti rimpianti, recriminazioni, sconfitte esistenziali, rivincite, vendette. Il film, che aspirerebbe a ben altro, è un catalogo inerte di questi temi, un'esposizione del plot di un romanzo che non viene voglia di scoprire (il film, qualunque sia il livello del libro, siamo certi che gli faccia un pessimo servizio) in cui la Kidman sbaglia parte (è ora di dirlo: non è che una discreta attrice), Hopkins sbaglia razza, Gary Sinise sbaglia mestiere, Ed Harris timbra il cartellino per l'ennesimo ruolo da non protagonista caratterista. Una produzione di serie B che, destinata a successo nullo in patria, si tenta di riciclare come film d'impegno in Europa per recuperare un po' del (limitato) budget. Il regista gestisce male gli andirivieni temporali, non dà spessore alcuno ai personaggi (l'amicizia tra Silk e Zuckerman che si intuisce decisiva, è resa malamente; la relazione tra il professore e Faunia si riduce a qualche scambio di verbosissime battute e ad alcune imbarazzanti scene di letto), espone meccanicamente le storie: la pellicola non ha nessuna compattezza componendosi di una serie di brutti frammenti (le scene migliori sono quelle del protagonista in giovane età) che non appassionano in alcun modo. Nella generale sciatteria anche il velo di menzogna che avvolge la vita di Silk (ogni vita umana lascia una macchia dietro sé, e la bugia che ha perpetrato per anni è il segno che l'esistenza del protagonista lascia al mondo) diventa, una volta squarciato, agnizione improbabile se non ridicola e il nodo tematico centrale, la volontà dell'individuo di affrancarsi dalle costrizioni e dai pregiudizi della società, si riduce a quieta formuletta.
Cinema vecchio? Magari.

Lo sceneggiatore Nicholas Meyer macchia il romanzo premio Pulitzer di Philip Roth, lo rende illeggibile e affida a Benton l’arduo compito di dare un senso, connettendoli, ai vari blocchi sistemati a caso da una macchina del tempo impazzita. L’era clintoniana del pompinismo, l’ossimoro del politicamente corretto, il paradosso del pregiudizio (sia altrui che proprio) di The Believer, le impasse del reduce e dello scrittore, la passione senile di Achille che abbraccia lo scandalo (di cui non c’è traccia) e l’incontro di due anime solo apparentemente distanti: tracce incassate a casaccio in un andirivieni di flashback che Benton, anziché assemblare in virtù di un’intuizione unitaria, tratta singolarmente, come se la precedente e la successiva non esistessero. I punti salienti (l’episodio razzista, la morte della moglie, l’incontro con lo scrittore) sono senza fiato, su altri s’indugia senza preavviso (la seduzione pugilistica nel 1948, ad esempio), dando l’impressione al lettore di vagare fra le pagine di un romanzo faticoso, senza meta, saltando i capitoli, i paragrafi (almeno tre scene non hanno senso: quella al ristorante, il colloquio con la cornacchia e la finale in cui Harris minaccia di non rivelare ciò che non ha detto). Benton e gli interpreti (soprattutto la Kidman) salvano qualche brano dall’inchiostro nero rovesciato: il dolore di un’esistenza infelice che rifiuta l’abbraccio dello sfogo (Kidman/Hopkins), la nuca sfiorata al concerto (Kidman/Hopkins), l’amore del dopoguerra che cede il passo all’ipocrisia (una scena crudele perché ammantata di tatto e dolcezza), scatenando la voglia di riscatto di un finto ebreo (il parallelo di balli e strip fra il primo e l’ultimo amore andava avvicinato). Poi il colpo di scena, la macchia di colore schiava di se stessa, il terribile segreto sussurrato all’orecchio dell’amante l’ultimo giorno di vita: qualcuno s’è dimenticato di parlarcene più approfonditamente. Le note di Rachel Portman incantano.