TRAMA
La figlia trentenne Margaret aggredisce la madre Christina. Non potrà superare il limite di cento metri imposto dall’autorità.
RECENSIONI
Il cinema della regista svizzera Ursula Meier è ormai riconoscibile, sia nella costruzione estetica che nelle pieghe dei racconti: complesse questioni famigliari scolpite tra le montagne elvetiche, verifiche affettive incerte, dubbi sullo statuto dell’essere madri e figlie, quindi sulla sostanza stessa del femminile. Nel teatro umano innevato fotografato da Agnès Godard l’autrice inserisce anche uno spazio, un limite, un confine: in Home c’è la divisione tra l’autostrada e la società, con la famiglia costretta a riscrivere le coordinate quando la strada morta rientra in attività; in Sister lo spazio diventa verticale e viene oggettivato nel simbolo della funivia, dall’alto al basso e viceversa. Nel caso de La Ligne l’idea si fa letterale, tanto che il film si chiama la linea, appunto, e non per forza la linea invisibile come sostiene il sottotitolo italiano visto che a un certo punto il tratto viene tracciato, diventa al contrario visibile. È la linea che separa la figlia Margaret dalla madre Christina, aggredita in ralenti all’inizio, perché la ragazza è stata interdetta in attesa di giudizio. Non può avvicinarsi e proprio il divieto per spinta contraria la porta più vicina, si reca ogni giorno presso la linea. A renderla visibile è la sorella minore Marion, poco più che una bambina: perché disegnare linee è un gioco da bambini, lo dice la stessa Meier, che definisce lo spazio concesso a Margaret “il suo luogo di gioco”. D’altronde la scrittura di un perimetro è metafora stessa dello spazio cinematografico, di ciò che è lecito o meno, di quello che si può fare o no, insomma della propria libertà, tanto che il dissidente iraniano Jafar Panahi calpesta il confine turco ne Gli orsi non esistono, un’altra linea invisibile.
Il limite in Meier rappresenta invece il confine della possibilità affettiva: una figlia incline alla violenza non può avvicinare una madre malata di narcisismo, come attestano l’interpretazione ferina di Stéphanie Blanchoud e quella di Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo di se stessa. Se Margaret offre una variazione sulla figura del giovane borderline, ricorrente nel cinema francofono (uno per tutti: A testa alta), disturbata da esplosioni violente, non solo colpa sua ma anche, dall’altra parte Christine propone la riscrittura della madre egoriferita, incapace di assolvere al ruolo perché concentrata solo su di sé – potrebbe essere una mamma di Dolan. La distanza all’apparenza siderale viene conciliata dalla piccola Marion, ovvero “la guardiana della linea” (Meier), colei che dalla sua prospettiva generazionale vigila sul non superamento, per non rovinare la sorella e insieme sciogliere la madre. A legare tutte c’è la musica, il filo nascosto tra loro, dalle ripetizioni di Margaret a Marion in vista della recita fino alla sonata di Christina al piano, che si dichiara assordata per colpa della figlia, imputandole perfino la sottrazione del talento in declino. Nel gioco sofferto di distanze e avvicinamenti, di linee rispettate e superate, alla fine affiora un’ipotesi di pacificazione, ma troppo tardi perché il gioco al massacro è compiuto, il meccanismo della legge ormai in moto. E così questo cinema di luoghi e spazi, di sentimenti difficili, della complessità di amare arriva a un nuovo strato, quello pubblico che irrompe nel privato e lo convoca a giudizio. A scanso di equivoci: la coincidenza tra La Ligne e la distanza sociale del Covid, giura la regista, è del tutto casuale.