Commedia

LA LEGGE

TRAMA

In un piccolo paese della Corsica, giunge un agrario per comunicare al “don” locale che saranno bonificate le paludi. Conosce la bella Marietta, contesa da tutti, e il gioco della “legge”, in cui il “padrone” schiavizza il prossimo.

RECENSIONI

L’esule americano Dassin, vittima del maccartismo, sceglie spesso luoghi esotici (Grecia, Istanbul) dove rimarcare che gli unici eroi possibili sono i “ladri”, in nome di una legge morale che non tollera le disparità di ricchezza nel sistema capitalistico. Marietta, una Lollobrigida sensuale e selvaggia come in Pane, Amore e Fantasia, si ribella ad un sistema che, con il gioco della “legge” (crudele, umiliante, retrogrado, allegorico), favorisce solo i potenti come Don Cesare o i violenti come il Brigante (nomen omen) di Montand e trasforma in gregge tutti gli altri, previo regime di terrore, comminato con pacifica o inconsapevole accettazione dello status quo. L’agrario di un insolitamente modesto Mastroianni è l’uomo del continente, portatore di un’altra legge, più democratica ma inefficace contro gli atavici rapporti di forza. Solo la furbizia, l’estro e la vitalità della protagonista possono scalfirne le fondamenta con le armi della seduzione e dell’amore. Le donne del paese sognano l’evasione e, nei magnifici piani sequenza (da citare i montaggi interni di quello inziale), si intrecciano tradimenti, sguardi e desideri: Dassin, al solito, cerca la coralità ma trova anche un delizioso, dolceamaro balletto dove i protagonisti si muovono al confine fra tragedia e favola (vedi i due finali: suicidio e Cenerentola con principe azzurro). Tutto è curioso in questo sconosciuto capolavoro dell’ebreo-russo statunitense. Splendidi il racconto, tratto dal romanzo di Roger Vailland, la sua complessa allegoria, l’ambientazione corsa e paesana, il tono sospeso fra commedia, denuncia e fantasia musicale, le anomalie (le donne di Don Cesare che si fustigano, la scena della cicatrice ostentata), l’ideologia sottesa: lontano da casa, Dassin si fa sempre più ambiguo e stimolante, ne è un esempio la contraddittoria simpatia con cui, infine, osserva il “don”, come se i “re”, in fondo, fossero comunque custodi di una signorilità oggi sconosciuta ad avidi e borghesi, una rispettabilità a volte meritata e sancita dalle pecore serene al pascolo. Un’opera che dimostra appieno la migliore e più celata dote del regista, quella che fa tabula rasa delle convenzioni drammaturgiche e iconografiche per ripartire da zero con un’inventiva, un’abilità, una perspicacia inedite e soverchianti.