TRAMA
Parigi dopo la Terza Guerra Mondiale: nei sotterranei del Palais de Chaillot un prigioniero è sottoposto a dei traumatici esperimenti di viaggio nel tempo. Prima nel passato, poi nel futuro. Infine riconquista il privilegio di raggiungere un’immagine d’infanzia.
RECENSIONI
Voce over: “Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine d’infanzia”. Un’immagine che dell’infanzia reca impressi tutti i segni: assenza della parola, intensità, purezza. La purezza di qualcosa che attraversa il tempo, resiste alla distruzione, passa indenne attraverso la catastrofe della guerra e dell’oblio. È custodita da un uomo, in un uomo. Immagine resistente, in grado di sopportare la violenza degli esperimenti, capace di contenere il peso di un corpo che cerca di installarsi in lei, di abitare in lei. La Jetée è l’esplorazione di un ricordo, non la rivisitazione di un’immagine del passato, ma la rivitalizzazione di quell’immagine: dalla reminiscenza alla rinascita, un percorso vertiginoso (Vertigo è sottotesto costante, la libertà e il potere dello sguardo). È il piccolo delirio di ogni pellicola: far rivivere il passato, trasformare il ciò-è-stato dei fotogrammi in ciò-è-per-la-prima-volta. Eppure, paradossalmente, La Jetée fa il contrario. Blocca i fotogrammi, arresta il movimento, congela le pose: non fotografie, ma freeze frame. Soltanto questa verità: ogni rappresentazione della memoria è destinata allo scacco. Non si sfugge al tempo. Ecco uno dei possibili sensi del photo-roman di Chris Marker: lo scienziato come cineasta che genera la visione, costringe a vedere; l’uomo-cavia sottoposto agli esperimenti come spettatore che cerca di installarsi in un’immagine. L’illusione di poter vivere effettivamente (in) quell’immagine coincide con la morte: l’istante in cui l’uomo è sulla rampa di Orly è anche l’istante della sua estinzione. Non può sfuggire a chi lo ha costretto a guardare, a chi ha sorvegliato il suo sguardo. Credersi davvero nell’immagine equivale a vedersi morire. La Jetée: saggio inesorabile sulla fatale illusorietà del cinema, terribile smascheramento del dispositivo di rappresentazione. E illusione nell’illusione – quale verità! – tre battiti di ciglia sui quali vola lo spettro dell’amore. Nell’impossibilità di vivere con la memoria, se non falsificandola… (da Sans Soleil).