TRAMA
Il piccolo Tadashi, dieci anni, si appresta a trascorrere singolari vancanze estive: casualmente investito Cavaliere Kirin durante un rito religioso non può sottrarsi al suo dovere e, secondo la leggenda, conquisterà la spada del Grande Coboldo per sconfiggere l’esercito del male dello Yomotsumono. Suo alleato sarà lo spirito Sunekosuri (accarezzatore di caviglie), una gradevole bestiola in forma di gatto.
RECENSIONI
Il Matto
Questo psicopatico di Takashi Miike (finora solo THE CALL nelle sale italiane, altre perle in DVD) è un habitué del Lido che sembra ogni volta divertirsi pazzamente (solo lui, secondo i detrattori); se a Venezia 61 ci aveva lasciato con il folleggiante IZO oggi non è cambiato nulla per il regista giapponese, dalla media di 3/4 film all’anno, vero idolo della folla per il pubblico mandorlato (e tra le ovazioni maggiori del Festival). La trama è inutile, pura follia: pescando dal folklore nipponico Miike mescola generi, liquidi, paradossi e mostriciattoli nel corso del suo film, ponendo il paravento del fantasy come semplice pretesto per andare dove vuole, incrociando LA STORIA INFINITA alla novella (non troppo) edificante per bambocci. Se proprio vogliamo indagare (un vezzo inutile, in fin dei conti), il fil rouge verte stavolta sullo spirito degli oggetti, suggestione fortemente orientale: oggetti trascurati, maltrattati, abbandonati che liberano la loro anima per vendicarsi dei seviziatori.
Confermati appieno pregi e difetti del suo stile: una tendenza incondizionata all’invenzione, non di rado plasmando deliziose sortite di fighissimo nonsense (il tormentone dei fagioli), una sceneggiatura ai limiti della sanità mentale, una costruzione visiva spesso accumulativa ma che non ti fa smettere di ridere (il dialogo tra il muro e l’ombrello è già cult). Data la sua prolissità il gioco di Miike presto stanca: tende a ripetere scherzi e situazioni, aderisce grigiamente alla meccanica della guerra (compreso un grottesco scontro finale) e, già che ci siamo, nella conclusiva parata “mostruosa” ci infila un demenziale appello pacifista. Amabile o detestabile a seconda del caso e dello stato d’animo Takashi, che dedica il suo film – meno geniale di altri - a tutti gli ingenui e creduloni (Vi amo per ciò che veramente siete), continua a portare l’esempio di un cinema genuino, frichettone ma libero dalla gabbia dell’industry, che ci fa puntualmente aspettare col sorriso la prossima esplosione di follia.
