Bellico, Recensione

LA GRANDE ILLUSIONE

Titolo OriginaleLa Grande Illusion
NazioneFrancia
Anno Produzione1937
Genere
Durata114'

TRAMA

Durante la Prima Guerra Mondiale il capitano Boeldieu, il tenente Marechal ed altri soldati francesi, catturati ed internati in campi di prigionia trascorrono la loro residenza forzata tentando di evadere, passando di campo in campo, fino ad essere assegnati alla fortezza diretta da von Rauffenstein. La fine dell’epoca è la fine delle possibilità.

RECENSIONI

Costretti a sopravvivere all'illusione delle speranze Jean Gabin ed il suo compagno di fuga Dalio ritrovano l'umanità, lo scorrere del quotidiano piacere domestico alla cima delle sofferenze, del crollo fisico e morale, una luce di occhi femminili, un sorriso, finalmente dopo che l'unico fiore, estraneo però ai loro occhi e fors'anche alla loro comprensione, si era reciso, caduto perché la brutalità soffocasse, la prassi mortifera della necessaria idiozia bellica si aprisse un poco, uno spasmo emozionale a sbocciare. La solidarietà permette di continuare a vivere, non per altro che per essere liberi, è dunque un dovere etico: lo sguardo altero di Pierre Fresnay e il barcollare gentile, genuino fino al riso aperto di Jean Gabin non si compenetrano; la nobiltà non è nella concessione, volgare prerogativa moderna, è tutta nell'elisione, cancellazione silenziosa, "così dev'essere" è il sorriso del capitano mentre attorno a lui formicolano i movimenti, la commedia della sofferenza e della sopravvivenza a cui non può voler essere estraneo. La guerra segnerà la fine dei Boeldieu e dei Rauffenstein dice Stroheim, comandante a cui la guerra ha già tolto la possibilità di morire sul campo, aristocrazia morale, certamente titolata. Non spocchia li allontana dagli altri, prigionieri o subalterni, ma la solitudine, non è sentimento d'elezione ma di comunione della pena, di una percezione, di atteggiamenti la cui rigidità, ed anche solamente l'assunto morale che sottendono non si può adattare al momento e quindi si spezza, stacca come la fine della melodia dei flauti, come il fiore che mani storpie e guantate colgono per coprire pietosamente, con un po' di luce, l'impellente buio. Renoir ha il genio della sintesi, della varietà degli stili: si alternano con efficacia andamenti comici e tragici, dipinge la vita con attori che paiono neppure recitare, Stroheim e Fresnay su tutti; ogni personaggio è tratteggiato con leggerezza e profondità, un'epoca e degli uomini che si ergono nella messa in scena lucida e nitida in quanto schegge di esistenza che parabolano verso il nero del prima e del dopo. Vivere ed esserne fieri. Morire per una fierezza ermetica che si chiama Umanità.