TRAMA
Gli Dei pregano gli uomini di pregare a loro volta, perché tale mancanza di Fede sta aprendo le porte del Tartaro. I Titani sono pronti a far festa…
RECENSIONI
Il pantheon hollywoodiano è sempre più scoraggiato nel vedere un'umanità così divinamente emancipata e portabandiera di un demagogico potere al popolo tutto americano. Nella faciloneria dell'aforisma, sempre in bilico tra la sua esaltazione e il rovescio parodico, La furia dei titani declassa gli Dei con sensi di colpa e perdita d'immortalità, inneggia al libero arbitrio dei figli terrestri che, guarda caso, non devono però dimenticarsi di sposare la più nobile della cause ovvero salvare le sorti del mondo.
Anche perché questo Olimpo ha poco da comandare, vittima ormai di un'imperante sfiducia verso la sua istituzione che, di conseguenza, può aprire le porte ai pericoli del Caos (il crollo del Tartaro e l'uscita del Diavolo-Cronos). La responsabilità è quindi tutta umana, fiduciosa e imperterrita nel difendere la speranza per il proprio futuro, a dispetto invece dei Padri che si ritrovano a fare i conti con debolezze e depressioni tutte nuove.
La furia dei titani abbraccia coordinate riconoscibili, su tutte quelle dell'immaginario: l'ennesimo universo fantasy che non riesce a commistionare il massiccio uso della CGI con la fisicità, rasente la macchietta carnevalesca, dei corpi in carne ed ossa.C'è sì il tentativo del 3D, tanto bramato per riscattare il fallimentare uso che ne era stato fatto, in post-produzione, per Scontro tra i Titani, ma in certi frangenti servono dei miracoli. E i miracoli non accadono se la tecnologia è al servizio di una caciara tridimensionale che non va oltre l'aggreddire lo spettatore con confusi piani ravvicinati e in movimento della creatura mitologica di turno (Chimera, Minotauro, Ciclope). Un'inutile ricerca di intrattenimento che, soprattutto, non può competere con la povertà di un soggetto sempre oltre la soglia del ridicolo. Il problema di base è il convinto gioco dissacratorio mal legato con le solenni ventate di pathos che cercano, sornionamente, di non far perdere la credibilità dell'insieme. Come se avessimo bisogno di essere rassicurati che nulla è da prendere sul serio, che sotto le vesti di un messaggio edificante e propagandistico (va a finire che, paradossalmente e solo negli ideali, gli statunitensi sono i più comunisti di tutti Rangoni Macchiavelli), c'è una familiarità con toni radicalmente più bassi, con modelli di riferimento e schemi narrativi già assimilati da quintali di spazzatura visiva. Non bisogna avere paura degli Dei, tanto anche loro sono vittime del tempo; e neppure di ciò che questo può comportare. Tutto è infatti risolvibile con una genetica propensione all'eroismo che solo il delirium stelle e strisce può ancora cantare e canzonare allo stesso tempo. Accertato che il problema di base è sempre e solo la Guerra (il casinista è Ares), si può pensare a una bel flirt conclusivo tra Perseo e la bella Andromeda, con in sottofondo il fare fricchettone di un improbabile Agenore così anacronistico da sembrare il più veritiero.
Film che uccide gli dei, in tuti i sensi: Scontro tra Titani di Louis Leterrier era colmo di difetti che questo seguito, uscito sull’onda del successo al botteghino del precedente, mantiene e peggiora senza aver, dalla sua, alcun pregio. L’elemento maggiormente rovinoso è la (non) drammaturgia che procede a rotta di collo (precisa scelta estetica della saga), frutto della nuova coppia di sceneggiatori Dan Mazeau e David Johnson (per fortuna meno innamorati di proclami pomposi: ma il loro soggetto di partenza è di una povertà avvilente) che, in un meltin’ pot, frullano varie figure della mitologia greca (Kronos, il Minotauro, i ciclopi…) svuotandole di senso, meri segni esteriori di un percorso a tappe (identico al primo capitolo) dove dar sfoggio agli effetti speciali. La regia di Jonathan Liebesman, reduce dal brutto World Invasion, aggrava le mancanze nel suo essere senza respiro: fatica anche a fermarsi per un bacio, imbastisce una scena con le sue convenzioni e glissa annoiato per rincorrere la successiva, ottenendo un avvicendamento di stereotipi che non riescono a fare nemmeno il loro rodato mestiere. Peccato, perché qualche ingrediente decente ci sarebbe, su tutti la figura di Ade di Ralph Fiennes (con battute, a sorpresa, che funzionano) e il tema della gelosia del fratello Ares: ma il tempo è tiranno, il fiato corto è l’obiettivo e si deve dare spazio alle meraviglie digitali, di buona fattura ma non sorrette da idee degne di nota (non c’è una medusa a salvare tutto, questa volta). Scottati dalle critiche per il 3D posticcio del precedente capitolo, i produttori hanno investito su quello “vero”.