TRAMA
Robert Miller è un uomo d’affari all’apice del successo e ha una splendida famiglia. In apparenza.
RECENSIONI
Evidentemente ai fratelli Jarecki la famiglia americana interessa molto: se Andrew punta su un documentario e la ricostruzione di una storia vera (Una storia americana e Love & Secrets) per portare alla luce le dinamiche diversamente malate di un nucleo familiare, Nicholas punta sulla fiction (anche se in questo film si rinvengono riferimenti che non sembrano casuali all’affaire Edward Kennedy del 1969): con La frode il regista, mantenendo fermo l’oggetto dell’analisi, ne amplia il contesto, giocando la sua partita sul campo tematico attuale del potere (in crisi) e del prestigio sociale (in pericolo).
L’inizio dipinge un quadro a suo modo rassicurante: Robert Miller, facoltoso manager, rientra a casa dopo un impegnativo viaggio di lavoro; viene accolto con calore - a cena si festeggia il suo compleanno -, parole e gesti dicono di affetto e comprensione: tutta apparenza che viene smentita dalle scene successive. La famiglia è infatti solo l’avamposto base della Grande Mistificazione Sociale dietro la quale il protagonista naconde tutte le lordure: fuori c’è (stata) un’orda di amanti e l’ultima, in particolare, giovane e bella, spera che lui molli la moglie; fuori c’è anche un’azienda a un passo dal fallire, tanto che per evitarlo il magnate ha messo in atto una procedura illegale che, se andasse in porto, lo salverà, ma, se scoperta, condannerà lui e i suoi figli al tracollo e all’umiliazione. Poi l’imprevisto: l’incidente d’auto e la morte dell’amante. Robert, sopravvissuto, era al volante e cerca di far sparire le sue tracce dal luogo dell’accaduto.
Si innesca a questo punto un groviglio che vede il mondo delle apparenze, faticosamente costruito, confliggere con quello reale, fatto di manovre marce, corruzione, ricatti, in un corto circuito che mette a nudo ipocrisie e forze contrapposte. Per Miller, che trae dal suo egoismo tutti i suggerimenti per il suo agire, le cose che contano sono denaro e reputazione (che equivalgono al potere), senza i quali tanto varrebbe morire.
Arbitrage sembra un intrigo à la Tom Wolfe, storie piene di dilemmi in cui mondi differenti - per razza, estrazione e cultura - vengono a collidere creando Caos, situazioni dense di implicazioni che si risolvono nel modo più logico e realistico: il più forte vince.
Il ragazzo nero (che ha un debito di riconoscenza nei confronti di Miller) che aiuta il protagonista e che però, nel suo essere alieno alla dimensione del potere, è tanto potenzialmente incontrollabile quanto decisivo, non tradirà. Robert Miller ne è sicuro fin dall'inizio perché Non è come noi, dice a un certo punto. Intendendo: è migliore di noi. Intendendo: ha una dignità e un'etica. Intendendo che per questo è esposto, quindi inerme. All'uopo: sacrificabile.
In un mondo sporco puoi vincere solo se giochi sporco (anche la polizia lo sa) e continuare a mentire, quindi, è ciò che l'uomo potente deve fare: il suo compito è resistere, la posta essendo la sopravvivenza del suo status, il suo status garantendogli la sopravvivenza. E Miller il Manipolatore mente e resiste, arrivando a un accordo con tutte le parti in gioco, pagando il suo prezzo (solo monetario, ça va sans dire) ad ognuna di esse, l'arbitrage rivelandosi essere il compromesso globale che l'uomo accetta per sopravvivere (ovvero per continuare a tenere in piedi quel sistema complesso di apparenze minacciato dagli eventi).
Il film, messi in campo i suoi elementi tematici, però, li abbandona a loro stessi, cincischiando e girandoci attorno e giammai facendone punti di forza su cui basare la narrazione; quest'ultima si limita, infatti, a mescolare freddamente trame e sottotrame e ad accumulare posticce complicazioni per dare un'idea di complessità: a uno sguardo neanche troppo attento il meccanismo, però, si denuncia elementare e piuttosto inerte. Richard Gere gestisce bene il ruolo da protagonista (la nemesi del personaggio incarnato in Pretty Woman), con un'efficace performance che lo ha proiettato nella grande stagione dei premi e a cui il film deve molta dell'attenzione che gli è stata riservata; Tim Roth è alle prese con un personaggio completamente fuori registro; alla combattiva (e marginale) Susan Sarandon il compito del colpo di coda: la scena del confronto-verità col marito è di efficacia indiscutibile e, a conti fatti, per intensità e crucialità, la cosa migliore di un film di buona confezione (la pregevole fotografia di Yorick La Soux), ma vittima dei suoi rigidi schemi.
L’esordio registico di Nicholas Jarecki (sceneggiatore di The Informers e fratello dell’Andrew di Love & Secrets) ha spunti molto interessanti nel collegare un thriller/caso poliziesco alla crisi economica, per additare gli speculatori finanziari senza scrupoli (fra le fonti, s’è avvalso anche del libro “The great hangover” di Graydon Carter, direttore di Vanity Fair cui offre il ruolo di Mayfield). Il personaggio del funzionale Richard Gere dichiara che le bolle speculative scoppiano quando si scontrano con la realtà: la trama del film a seguire, allora, non è casuale. Peccato che lo script perda troppo spesso di vista questo parallelo fra azioni truffaldine nelle alte sfere e loro allegorica conseguenza nella vita reale: preferisce, purtroppo, adagiarsi sul risaputo (il dramma dell’uomo intento a celare un delitto alla polizia) e il tutto perde d’interesse, non supportato da una regia scolastica che punta sulle interpretazioni e i dialoghi senza avere carte vincenti a riguardo, abbandonando alle parole del solo personaggio di Tim Roth le invettive del caso, anche fuori luogo, contro i potenti che la fanno sempre franca. Nella seconda parte tornano in auge gli spunti del parallelo, il giocatore di poker di Gere perirà della stessa spada con cui ferisce nel lavoro (la “transazione” della moglie, che si rivela alla sua “altezza”) e, mentre la frode va in porto (con la complicità di chi vede e non prende provvedimenti) al contrario della polizia (protagonista di azioni inverosimili: falsifica le prove e arriva ai colpevoli con un’efficienza mai vista), c’è l’amarezza di “anche i ricchi piangono”, sebbene non siano persuasive le figure di figlia e moglie, cui si spezza il cuore davanti all’animo da baro del protagonista, quando era più verosimile che la moglie arrivasse alla rottura scoprendo dell’amante (era più coerente con la sua principale preoccupazione di salvare la faccia e la casa, intesa, anche, come famiglia).