Fantastico, Focus, Recensione

LA FORMA DELL’ACQUA

Titolo OriginaleThe Shape of Water
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata119'
Fotografia

TRAMA

1962, America della Guerra Fredda. All’interno del remoto laboratorio governativo di massima sicurezza dove lavora, la solitaria Elisa è intrappolata in una vita di silenzio e isolamento che viene cambiata per sempre quando lei e la sua collega Zelda scoprono un esperimento segreto.

RECENSIONI

Guillermo del Toro's Bleak House. Photo © Josh White/ JWPictures.com

«Quando le persone dicono 'oh, la fantasia è una grande via di fuga', io sono solito rispondere 'non credo. La fantasia è un grande modo per decifrare la realtà'».

Per comprendere la natura onnivora di Guillermo Del Toro, capace di rielaborare con una sua inconfondibile e coerente poetica i materiali più differenti, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura al fumetto, dal cinema d’autore (Bunuel su tutti) a quello di genere e b-movie, bisogna andare nel suo gabinetto delle curiosità a Los Angeles, la Bleak House. Al suo interno possiamo scorgere una scultura di H.P Lovecraft, un’alcova a mo’ di altarino dedicata a Dickens, un’armatura samurai, oppure veder sbucare il freak Schlitzie o Karloff in versione Frankenstein. Non mancano libri, enciclopedie di anatomia, i comics dell’infanzia.  Un mondo sospeso, un tempio gotico, pieno di stranezze e omaggi, che ben mette a fuoco il cuore pulsante di un regista nutritosi dei più vari elementi, senza gerarchie, senza dualismi, senza preconcetti. Il cinema di Del Toro in fin dei conti è proprio la Bleak House, una miscellanea fantasy allestita da un regista che non ha mai smesso di approcciare le immagini con gli occhi divertiti di un bambino. Spesso liquidato con il pigro slancio critico che vede nella sua filmografia un accumulo grezzo e derivativo, sarebbe l’ora di approcciare questo autore che non si limita al semplice calco, ma cerca invece di utilizzare l’altrove (cinematografico) per riflettere sulla realtà, soprattutto storica.
Anche La forma dell’acqua si rivolge al passato seguendo l’amore del suo regista per il rétro e il démodé, questa volta collocando la fiaba nel clima teso e sospettoso della Guerra Fredda. Elisa, una muta Cenerentola, trascorre la routine giornaliera tra i labirinti di un centro di ricerca governativo. È una donna delle pulizie, l’ultimo anello di una società esplicitamente maschilista, razzista, omofoba, classista, piena di pregiudizi. La protagonista altra, diversa e perlopiù incompresa è servita, ma ciò non è un problema, perché il mostro, da intendere soprattutto nella sua accezione di outsider, per Del Toro è sempre una prospettiva che deraglia la chiusura e le paranoie del mondo reale. Elisa è una bimba sognante, un po’ come l’Ofelia de Il labirinto del fauno, vive con il calore del suo vicino di casa omosessuale Giles, un ex pubblicista che, per la sua identità, è stato licenziato e, nonostante tutto, cerca con ostinazione di poter vendere nuovamente la sua arte e tornare a lavorare. 
I due trascorrono il tempo libero guardando (vecchi) film, imitandone le movenze, cullati in una dimensione sospesa che solo il cinema può regalare, un cinema che fisicamente sta proprio sotto il loro appartamento, in una evidenza meta- che si autoafferma, come a dirci che nell’universo del Toro le radici partono proprio da lì: «Ho sempre disegnato tre mostri ossessivamente: Il Mostro della Laguna, il Mostro di Frankenstein e il Fantasma dell’Opera di Leon Chaney». E se The Creature of the Black Lagoon uscisse dallo schermo e diventasse l’oggetto del “desiderio” tra americani e russi? E se questo emblema della diversità nascondesse dentro di sé l’animo di un principe, capace di aprire una breccia nella logica paranoica tra le due fazioni? L’antenato di Abe Sapiens di Hellboy (si tratta forse di suo padre?), è la divinità immortale che più ossessiona il suo alterego Strickland, un sadico Michael Shannon che sembra reiterare al cinema la caratterizzazione spietata del celebre Nelson Van Alden di Boardwalk Empire. Nel mondo di Guillermo Del Toro lo scorrere del tempo, nella sua ineluttabilità, è una costante.
Da Cronos, dove un insetto nascosto in un talismano poteva garantire la vita eterna, all’orologio del capitano Vidal ne Il labirinto del fauno, al doloroso ricordo paterno di Jacinto ne La spina del diavolo, alla castello/prigione del passato dei due fratelli in Crimson Peak, il tempo è un tiranno che condiziona i personaggi. Per compensare questo spettro, che inevitabilmente nasconde una limpida paura per il fallimento della memoria e per la morte, vi è sempre il tentativo di poterlo fermare attraverso una dolorosa e illusoria realtà altra. Ne La forma dell’acqua è la corsa al futuro il cuore temporale del film. Strickland, benché insista a masticare le caramelle della sua infanzia, è definito “the man of the future”, come la sua macchina nuova di zecca. Peccato che le caramelle lasceranno lo spazio a dosi massicce di medicinali per evitare la cancrena a due dita (nere!!!) e la Cadillac durerà appena mezza giornata. È tramite il colore verde, lo stesso delle disgustose torte di gelatina, una delle tonalità dominanti, spesso combinata con il blu in un’ambigua e viscerale cianosi, che l’America degli anni sessanta cavalca l’entusiasmo verso nuovi orizzonti.Ma ai nostri protagonisti questa frenesia della conquista ha senso solo se va di pari passo con un sincero riconoscimento dell’altro, nella più sincera e calda condivisione.
Con la stabilità garantita dai crane arms, Del Toro tiene sempre i suoi personaggi in movimento, quasi si trovassero dentro un musical. Al suo sguardo calcolato e ben studiato, si affianca l’inconfondibile lavoro di design, un vero e proprio marchio di fabbrica del regista. Il mondo rappresentato è infatti fisico, materico, se ne sente lo spessore fin nei dettagli degli oggetti più piccoli. La plasticità marcata dell’estetica di Del Toro però crea una tensione con l’elemento liquido, da sempre portale intrauterino dell’inconscio, qui protagonista fin dal titolo. La liquidità è uno specchio di Alice dove emerge ciò che è nascosto, ma anche un grembo in cui spesso si può trovare una quiete e un happy ending (?) che il mondo non ci può garantire. La fantasia e la realtà dialogano sempre, senza sosta, entrambe possiedono elementi oscuri e di pericolo, ma è soprattutto attraverso la prima che si può assistere a veri e propri miracoli. Come su uno schermo. Non stupiamoci quindi se con la semplicità naif di un ragazzino, Del Toro dona la voce alla nostra principessa e, sotto le note de La Javanaise, le permette di ballare con il (suo) mostro venuto dagli abissi. In uno spazio senza tempo, per l’appunto, chiamato Cinema.

CINECROMIE - IL COLORE DELL'ACQUA

Illustrazione di Roberto Recchioni

L’acqua, ce lo dicevano a scuola, prende la forma del suo contenitore. Quello che non ci dicevano è che il rapporto contenitore-contenuto riguarda anche il cinema; e l’amore: è una relazione antica, prenatale, di conseguenza, acquatica. Lo schermo, la scatola, l’immagine, l’altro in cui rispecchiarsi, l’altro da diventare, l’immersione che confonde i piani –del reale e della fantasia- sono una forma di riconoscimento e di alienazione, una stanza piena d’acqua che straripa se si apre la porta, defluisce come un sentimento al suo culmine. Tutto questo, in The Shape of Water, è verde, il film intero è verde almeno quanto Crimson Peak era rosso. Colore contraddittorio, contiene la freschezza dei virgulti e la fatiscenza delle pareti umide; instabile, è stato difficile da maneggiare in pittura, soggetto a facile deperimento; oscillante, può sconfinare nel blu, nel giallo, nel “foglia da te”, teal, come la Cadillac “per uomini all’avanguardia” che Strickland-Michael Shannon si lascia convincere ad acquistare, pur precisando “looks green to me”, gli sembra verde, ma è classificata come “teal”, nel capitalismo del boom economico che inventa sfumature per esseri umani che non ne hanno, che distinguono solo il bianco e nero in piena era di discriminazione razziale e sognano sul piccolo schermo in scala di grigi, mentre la grande sala gocciola semivuota (e questo è un innesto di contemporaneità in un film che è solo simbolicamente nel passato). C’è ovunque verde, il colore del futuro, delle pessime torte di un franchising in cui comincia a spersonalizzarsi la ristorazione, della gelatina Jell-o che si vuole verde nei nuovi manifesti pubblicitari (precisamente, da rossa a verde, come da Crimson Peak a The Shape of water, appunto). Dal mutamento alla mutazione: il colore delle oscillazioni è tanto portatore di cambiamento, del perenne rinascere della natura, quanto dell’innaturale e dell’anomalo, degli Slimer che sguisciano nei corridoi, dei fluidi e delle nebbie carpenteriane, delle creature di altri pianeti (forse trappole sovietiche?) che spopolano nei poster dei vecchi sci-fi e B-movies.


Per un regista con una forte marca stilistica nell’uso dei codici cromatici, quale è Del Toro, un verde così insistito, perfino tematizzato verbalmente nella sua ricorrenza, è funzionale alla creazione di un mondo a sé, che ne contiene molti, un gabinetto di memorie perdute e di situazioni futuribili, pieno di solitudine e desideri, di silenzio forzato e chiacchiere solidali: si pensi al binomio Zelda – Elisa, nelle loro uniformi verdi, ospedaliere come le pareti, livide come le piastrelle di una piscina da laboratorio, come la copertina di un libro che illustra i benefici del Pensiero Positivo.
La stessa fotografia è immersa in un bagno verde-azzurro, perché la storia avviene in un altrove che richiede allo spettatore di immergersi, fino a immedesimarsi in un amore branchiale, nell’unione donna-uomopesce, muti come pesci, come un vecchio film. In questo film nuovo, ma pieno di rimandi e suggestioni, da Splash (1984), al recente corto The Space Between us (2015) dell’olandese Marc S. Nollkaemper che ne sembra effettivamente la videosinossi –ma la Netherlands Film Academy smentisce le accuse di plagio-, se l’acqua è l’elemento dominante, il verde, fluttuante come l’amore, ne è la codificazione visiva -”acquamarina” è il colore a metà fra verde e ciano così chiamato a partire dall’omonimo minerale-. Quel verde che, nel suo continuo ondeggiare di sfumature e di significati, è stato in passato, in tempi molto antichi, concettualmente, com’è adesso per il blu, il colore dell’acqua.