Drammatico, Sala

LA DEA FORTUNA

TRAMA

Arturo e Alessandro stanno insieme da più di 15 anni e forse hanno perduto il senso del loro amore.  Annamaria, una loro amica che deve affrontare alcuni problemi di salute, affida loro i suoi due bambini.

RECENSIONI

Il ricevimento di un matrimonio gay ripreso con un cellulare - che segue al pianosequenza dei titoli iniziali (quello in cui si allude al trauma infantile che troverà decodifica e replica nell’epilogo) - diventa la rapida presentazione dei personaggi principali del racconto e del contesto sociale che li accoglie: siamo nell’Ozpetek più riconoscibile, nella proposta di una personale mitologia, quella di una comunità solidale che intercetta culture e etnie diverse, una bolla ideale nella quale qualsiasi scelta sessuale trova espressione e nessun giudizio. Nell’ambito così delineato si inscrivono Arturo e Alessandro, compagni di vita in crisi da tempo, oramai avviati sulla china dell’inevitabile imborghesirsi: una coppia aperta più per evitare o rinviare la rottura che per reale convinzione, due caratteri diversi segnati da una differente estrazione sociale e la cui distanza, anche culturale, si è fatta nel tempo brutalmente economica.
L’arrivo di Annamaria e dei suoi bambini, la sua malattia e l’ombra di una morte che sappiamo non potrà non arrivare, mettono in moto l’intreccio virandolo sul tema dell’adozione omogenitoriale (con un sottinteso discorso politico non distante da quello dell’Ozon di Il rifugio). Ma il melodramma che scaturisce dall’armamentario così dispiegato convince più per la definizione dei caratteri che per lo sviluppo della storia. Il rapporto di coppia è quindi sfaccettato e sfumato a dovere: le sue problematiche, il suo quotidiano, il modo in cui si espongono le radici dei contrasti, il riottoso chiudersi alle ragioni dell’altro dicono verosimiglianza (e a garantire il risultato c’è anche un Edoardo Leo perfetto che si candida ai premi di stagione in scioltezza). Ma convincono meno la concezione dell’impianto e la scrittura: fa tappezzeria e nient’altro il consueto numero musicale; e cornice più debole e pretestuosa del solito la sfilata di personaggi a contrappunto (ed è davvero esecrabile la superficialità con la quale viene caratterizzato il personaggio interpretato da Filippo Nigro, destinato, con cinismo involontario - e quindi ancora più imperdonabile - a fare colore); sulla tenuta dei dialoghi poi siamo davvero alle solite (ma uno sceneggiatore all’altezza delle sue intuizioni registiche Ozpetek si preoccuperà di cercarlo, prima o poi?).
L’ultima parte, che si allontana dal suo cinema più classico e si avvicina a quello più azzardato e sperimentale (dal neo-rosselliniano Cuore sacro, al fantasy/fantasmatico Magnifica presenza, fino al mistery Napoli velata), assume vaghe tinte horror e chiaroscuri psicoanalitici, ma senza radicarli nel racconto, quasi accostandoli, facendone motivo accennato e irrisolto e, quel che è peggio, nella sostanziale indecisione dei toni (si registrano scampoli di commedia, ammicchi western, momenti action): certo, questo segmento gioca bene la carta Barbara Alberti (che prende il posto dell’apparizione trionfale della consueta vecchia gloria del nostro cinema  - mentre c’è una delle ultime canzoni di Mina a garantire l’ortodossia dell’immaginario gay -), ma, sbrindellato come appare, non giova alla coesione di un’opera già diseguale, nonostante la ricomposizione coerente dei motivi del film del finale.