Drammatico, Grottesco, Recensione

LA DANZA DELLA REALTÀ

Titolo OriginaleLa danza de la realidad
NazioneFrancia / Cile
Anno Produzione2013
Durata133'

TRAMA

Un’autobiografia visionaria che racconta l’infanzia del piccolo Alejandro e la storia della sua famiglia nel Cile degli anni Trenta.

RECENSIONI

Probabilmente, ad oggi, la nota biografica più puntuale sul regista di La danza della realtà è di  Andrea Bruni, che a riguardo di Alejandro Jodorowsky scrisse: «è lo Stregatto convertito ai Lumiere: un fumista instancabile e sfuggente, un clown metafisico con i paramenti dello sciamano e la valigetta del manager». A confermare questa lettura è il diretto interessato, da sempre desideroso di diventare “il Cecil B. De Mille dell'underground”, che, consapevole dell'ascendenza sulla propria platea adorante, ha dichiarato: «il – mio - nome è molto noto e per questo forse posso ottenere finanziamenti senza compromettermi, avvantaggiandomi di un pubblico già stabilito» (e infatti Poesía sin fin, seguito di La danza della realtà, presentato all'ultimo festival di Cannes è stato per metà finanziato con i soldi raccolti grazie alla campagna di crowdfunding lanciata su Kickstarter: «una limosna sagrada», “un’elemosina sacra”, come definita dallo stesso autore). Come mai prima Jodorowsky si pone al centro della propria creazione (per quanto tutto la sua opera sia comunque segnata da un egotismo fiammeggiante e barocco); La danza della realtà, tratto dalla prima parte dell'omonimo libro (quella relativa all'infanzia del regista, trascorsa Tocopilla, minuscolo paese sperduto nel deserto cileno tra gli indios che poco apprezzavano i suoi capelli biondi e il naso aquilino di figlio sradicato di immigrati ebrei-ucraini) è un memoriale in cui si innervano frammenti di vita vissuta e reiventata («mi invento che mio padre va a uccidere Ibáñez. [...] Voleva farlo ma non mise mai in esecuzione il suo piano. Mia madre voleva essere cantante ma non lo è mai stata. [...] io realizzo i sogni di mio padre e di mia madre, e realizzo il mio sogno di riunirli di nuovo e di creare una famiglia»). Un racconto non tanto autobiografico quanto piuttosto segnato dal codice dell’autobiografismo, cioè da una costante e affannosa operazione di compenetrazione e arricchimento della propria vita con le influenze artistiche che l'hanno determinata: su tutte il non-movimento Panico, fondato da Jodorowsky con quegli altri due “cialtroni” apolidi di Arrabal e Topor; tendenza post-dadaista-surrealista («Panico – racconta lo stesso Jodo - amava tutto ciò che amava il surrealismo ma senza un Breton a sorvegliarci»), pseudo-avanguardia parodistica, avversa a qualsivoglia cenacolo culturale, senza schemi predeterminati, senza sovrastrutture, in piena libertà d’azione, di immaginazione e di contraddizione, tanto che ne è impossibile dichiararne con certezza i contorni, ma solo approssimarne i confini. Burla suprema ai danni della cultura, come fu definita dai tre iniziatori. E in La danza della realtà ritornano le ossessioni abituali del cinema, ma più in generale dell'arte, di Jodorowsky: il circo (visto attraverso la lente aberrante e grottesca di Mr. Barnum) come metafora del mondo, sarabanda fragorosa abitata da  handicappati e freaks;  le metafore cristiche; i percorsi iniziatici. E il tutto portato in scena attraverso immagini irruenti e irrompenti che tenderebbero a una saturazione visiva se non fossero controbilanciate da un regia sobria, frontale,  fatta di inquadrature fisse («Ho detto al mio direttore della fotografia Jean-Marie Dreujou che volevo un’immagine clinico-fotografica, non estetica. Volevo che la bellezza risultasse dal contenuto, non dalla forma. Quindi abbiamo deciso di eliminare la forma, di non mettere niente tra la macchina e ciò che viene filmato, di non fare movimenti di macchina inutili»).

Se da un punto di vista tematico e compositivo Jodorowsky non aggiunge nulla di nuovo al proprio discorso registico, che anzi si impoverisce di quella violenza stralunata ed eccessiva che aveva segnato gli episodi più felici del passato (su tutti il sottostimato Santa Sangre), l'aspetto più interessante di La danza della realtà è il cortocircuito filmico-familiare che si viene a stabilire e che innesca un affettivo dialogo generazionale in cui i volti si fondono e confondono in un sempiterno legame paternale-filiale. Il regista, come prima accennato, affronta i fantasmi della propria infanzia: ritrova  nell’immagine di Brontis, figlio adulto, paterno, lo spettro giovanile di suo padre Jaime, e nei tratti di Jeremias Herskovits il bambino che fu,  a cui lo stesso Jodorowsky si affianca come proiezione futura di ciò che sarà: «Tu non sei solo. Sei con me. Tutto ciò che sarai, già lo sei. Ciò che stai cercando è già dentro di te. Abbraccia le tue sofferenze, tramite loro si arriva a me». Nel film oltre a  Brontis compaiono anche Adan e Axel. Ma del resto, come dichiarato dall'autore «La danza de la realidad non è soltanto un film ma anche una forma di guarigione familiare, poiché tre dei miei figli sono attori nel film. Io torno alle sorgenti della mia infanzia, nel luogo stesso in cui sono cresciuto, per reinventarmi. È una ricostruzione che parte dalla realtà ma mi permette di cambiare il passato». Jodorowsky attraverso il cinema estrinseca quello che Freud definisce testualmente «il carattere tendenzioso della nostra memoria». Il ricordo infatti costituisce sempre una forma di correzione del passato, poiché la nostra memoria funziona come una specie di lente deformante. Il ricordare non è mai una semplice e meccanica restituzione di ciò che è stato, ma comporta sempre un certo grado di rielaborazione, il cui grado appare tanto maggiore e significativo quanto più siamo traumaticamente coinvolti. «Immaginazione e memoria – scriveva già Hobbes nel Leviatano – non sono che una cosa sola che prende diversi nomi secondo i diversi modi sotto cui viene considerata». La messa in forma compiuta dal ricordo è qui tradotta in messa in scena. Questa operazione però porta Jodorowsky, già predisposto all'egotismo, ad adottare spesso toni seriosi e autocompiaciuti che si esprimono spesso in stucchevoli tirate sapienziali che fanno sentire troppo l'intenzione di voler realizzare con questo film una summa della sua poetica.