Drammatico

LA CONVERSA DI BELFORT

Titolo OriginaleLes Anges du Péché
NazioneFrancia
Anno Produzione1943
Durata96'
Montaggio

TRAMA

Anne-Marie cerca di riportare sulla retta via Thérèse che, ingiustamente accusata di un delitto, viene incarcerata.

RECENSIONI


«A presto Sorella». È con queste parole che si conclude il film di Robert Bresson, lasciando da parte l’intreccio poliziesco per concentrarsi sulla sconfitta terrena, sulla volontà mortale e sul libero arbitrio. Tutte le pellicole del regista «hanno un tema comune: il significato della reclusione e della libertà» come diceva Susan Sontag. Anche in La conversa di Belfort si parla di liberazione spirituale, ma l’immagine del noviziato nel convento richiama immediatamente la colpa, il delitto e la cella, inevitabile fine e inesorabile destino. Il cinema di Bresson non è epidermico, non si ride e non si piange, si basa invece sulla trascendenza, quella (non documentabile) di Dio padre e della (falsa?) solidarietà terrena verificabile nello scontro diretto tra il gruppo delle tre superiore del convento con la gioventù – detentrice diintelligenza, fierezza, senso dell’assoluto e speranza -  nucleo assimilabile alle personalità antagoniste di Thérèse e Anne-Marie.


La struttura messa in forma da Bresson risulta da una parte rigorosa, ma dall’altra deformabile dallo spazio di cui si appropria la mdp che freme per poi rallentare, che narra l’ambiente senza mai dargli un nome preciso (a differenza di Rohmer che identifica la sua azione con un luogo inequivocabile: Place de l’Etoile ad esempio) e che racconta non solo il semplice carcere ma la condizione dell'uomo prigioniero del mondo; Thérèse esce dal penitenziario per entrare nel convento – luogo di detenzione per eccellenza nel cinema di Bresson -  dove invece di provvedere alla sua espiazione, matura l’idea di uccidere l’uomo che aveva commesso il reato per il quale lei era stata – ingiustamente – incarcerata. Il film di Bresson racconta la storia di una donna tenace con una missione che la spinge aldilà dei suoi limiti; Anne-Marie deve liberare dall’ostile presenza del Male “le anime dannate” della prigione ma la liberazione personale cercata da entrambe le donne avrà un tragico esito: la donna dovrà dare la morte per pagare la redenzione di Thérèse che non accetterà la rivolta e porgerà i polsi – nell’ultima inquadratura – incontrando il castigo.


Bresson, ancora al primo lungometraggio, sembra già interessato non tanto alla drammaturgia quanto al documentario: il suo cinematografo - come il regista amava definire il proprio oggetto di ricerca - rappresenta «quello che vuole dire», raffigura la quotidianità come elemento religioso e formale attraverso un’ attenzione spasmodica per la superficie - e quindi il particolare - riferibile soprattutto alla sequenza in cui vengono mostrati puntigliosamente gli oggetti di Thérèse in convento. Una mostrazione della quotidianità che instaura un filo rosso tra le azioni prestabilite nella celebrazione della messa e  - come diceva Bazin – la ripetizione ostinata dei comportamenti dei personaggi bressoniani che esprimono sicuramente il trascendente per mezzo della ricerca formale.
Rinchiusa nella prigione di un mandato terreno, Anne-Marie cammina verso la predestinata quanto puntuale deriva: le risoluzioni sono interrotte, il dialogo divino muto e assediato da un terrificante silenzio.

«Mai un lancio di dadi potrà abolire il caso».