Azione, Recensione, Sala

LA CITTÀ PROIBITA

TRAMA

Mei, una giovane donna cinese, cerca la sorella scomparsa a Roma, intrecciando la sua ricerca con la vita di Marcello, un cuoco romano. 

RECENSIONI

Kung fu, commedia all’italiana con tanto di sottotesto apertamente sociale, film dalle velleità politiche quantomai puntuali e in dialogo con il presente, vacanze romane lungo le strade notturne della capitale, love story all’insegna dell’incomunicabilità linguistica e culturale: l’urlo di Mainetti terrorizza anche al terzo film, con un pastiche che dimostra ancora una volta la sua brillante capacità nel coniugare ambizioni produttive pressoché uniche nel panorama italiano contemporaneo (i quasi 17 milioni di budget sono una cifra considerevole, anche se per la prima volta il suo nome non figura tra i produttori) con uno sguardo sinceramente permeato di quella generica cinefilia pop che è tra le cifre più rilevanti del cinema d’intrattenimento occidentale post-Marvel.
È vero, con La città proibita Mainetti fa propria l’operazione di esportazione occidentale del cinema di arti marziali canonizzata da Kill Bill, ma più che a Tarantino, le coreografie  d’azione guardano al recente John Wick e in particolare al terzo (il migliore) e quarto capitolo della saga che oggi resta un punto di riferimento e modello decisivo per il cinema di combattimento. Dai film con Keanu Reeves il regista romano sembra riprendere sia il peso dei corpi che la costruzione scenografica e talvolta quasi astratta degli spazi (emblematico il twist alla fine del primo scontro, che in qualche modo ripropone il disorientamento costruito a partire dallo squarcio nel tendone da circo nell’incipit di Freaks Out: dove siamo?), ma anche quella comica violenza che, pur schivando l’esibizione di dosi massicce di emoglobina, si esprime in vorticosi gesti atletici e un utilizzo spesso improprio degli oggetti (l’uccisione con la grattugia è già cult). E ancora, più in generale, ciò che esalta in Mainetti - qui forse più di prima - è l’importanza e la cura riservate alle sequenze d’azione, viste finalmente come motore trainante del racconto e mai come mero riempitivo della componente narrativa; una filosofia questa, certamente più vicina alle meraviglie visive del cinema orientale e a certe grandi produzioni muscolari di stampo statunitense che al contesto italiano, storicamente legato alle sceneggiature e alle grandi storie. Ma di nuovo, quello del regista de Lo chiamavano Jeeg Robot e di Freaks Out non è uno sguardo banalmente esterofilo, non risolvendosi mai in una copia maldestra e impacciata dei noti modelli hollywoodiani, perché il suo «è un cinema […] che si rifiuta categoricamente […] di finire imprigionato all'interno di anacronistici confini territoriali, senza tuttavia abbandonare le specificità storiche, culturali e linguistiche del (cinema del) proprio Paese; un cinema, insomma, che è allo stesso tempo orgogliosamente universale e provinciale, e che trova, in questa brillante sintesi, una forza espressiva unica» (così scrivevo a proposito del film del 2021; mi si conceda la poco nobile pratica dell’autocitazione). Nell’universo di Mainetti, Roma è la New York del cinema italiano, un luogo la cui specificità non è mai messa in discussione e che sa essere teatro ideale tanto di avventure popolate da supereroi quanto di drammatiche ed esaltanti storie di vendetta familiare. Un luogo reale che sa prestarsi al fantastico, all’imprevedibile, all’inaspettato, una città in cui la provincialità del dialetto si sposa con l’universalità produttiva di un cinema che vuole parlare una lingua apprezzabile da tutti e da ogni parte del mondo, perché fondata sugli archetipi del genere e radicata in quel contesto interculturale che è proprio delle grandi metropoli contemporanee.

Che bello questo cinema dalle grandi ambizioni e dalle spalle larghe per sostenerle e che bello questo cinema che dichiara la sua evidente autorialità senza rinnegare mai, anzi esaltando orgogliosamente, la sua primaria logica di intrattenimento; che bello questo cinema uguale a mille altre cose eppure, in un certo senso, spiazzante, disorientante, diverso, proprio come i personaggi che lo popolano, supereroi, mutanti, freaks da circo, eroine catapultate in un contesto culturale altro. Che bello questo cinema che fa politica attraverso il ribaltamento degli stereotipi del genere (l’efficace plot twist finale: non il boss cinese, il vero cattivo è sempre vicino a noi), ricordando ancora una volta quanto il genere sappia essere anche molto più incisivo del cosiddetto “cinema impegnato” nel proporre sguardi critici e puntuali sulla realtà. Certo è facile fare le pulci ad un cinema così, è facile fermarsi a criticare, ad esempio, una parte centrale che procede un po’ a singhiozzo oppure un finale forse eccessivamente didascalico; è facile, facilissimo, per chi sceglie di guardare il dito invece della luna.