TRAMA
RECENSIONI
Godard anticipa, riassume e supera il Sessantotto in questo film in fieri (ipse scripsit nei cartelli che punteggiano la pellicola), eterogenea stravaganza [le sue rapide scene fondono letteratura (Puskin), teatro (Brecht, Living Theater), cinema (si parla di Fellini e Nicholas Ray, il finale strizza l’occhio a Rossellini), fumetti, graffiti, backstage] di rara compattezza e sopraffina eleganza. L’appartamento in cui trovano rifugio (non troppo clandestino) i personaggi è una gabbia dorata da cui non possono uscire: l’accademia marxista-leninista si riduce a una sequela di dibattiti pesantemente scolastici (gli allievi attendono l’imbeccata del maestro, utilizzando i testi sacri per fare ginnastica e regolare la conta del destino), la nuova coscienza di classe resta un’idea confusa [1] che ricicla vecchi confini (i “borghesi” Véronique, Guillaume e Henri ascoltano il conferenziere e prendono appunti, Yvonne – la campagnola francese di oggi, indica un poster alle sue spalle – fa le pulizie, una trincea di libretti rossi a separarli), la purezza cromatica e la luce diffusa (dominano i colori primari, rosso blu giallo, e l’onnicomprensivo bianco) abbagliano i volonterosi rivoluzionari. Véronique, portabandiera della cellula Aden Arabie, dimostra la propria ingenua inadeguatezza nel dialogo socratico con il filosofo Francis Jeanson (risolto con un bellissimo piano sequenza in controluce) ma la catastrofe spruzzata di grottesco è ormai inevitabile: il film si chiude ritornando al punto di partenza. Alle idee vaghe dei personaggi si oppongono immagini di chiara, sublime astrazione (la tattile rapsodia pronominale, la morte di Serge): il film (si) riflette (su) se stesso, trovando nella non-forma del documentario libero (Méliès contro Lumière, oggi come allora) la propria dimensione ideale.
