Drammatico, Recensione

LA CALLE DE LA AMARGURA

Titolo OriginaleLa calle de la Amargura
NazioneMessico/ Spagna
Anno Produzione2015
Durata99'

TRAMA

Dora e Adela, due prostitute di mezza età, faticano a tenere il passo con le colleghe più giovani. Adela costringe una vecchia invalida a chiedere l’elemosina per lei. Dora ha un marito cui piace travestirsi e una figlia indomabile. Una sera, due luchadores mascherati – due gemelli nani – prenotano qualche ora d’amore con loro. Ma non tutto andrà come previsto.

RECENSIONI

La Calle de la Amargura è la trasformazione allucinata di un’incredibile storia vera – l’assassinio di due luchadores gemelli, nani, e mascherati, in un albergo di Cuauhtémoc a Città del Messico. Le principali sospettate sono due prostitute di mezz’età, colpevoli di aver avvelenato i loro clienti con delle gocce per gli occhi, dispensate in quantità massiccia. Mettendo in scena uno spaccato urbano intriso di materia oscura e d’irredimibile miseria, Arturo Ripstein costruisce una riflessione, amarissima e grottesca, sul tempo che divora i suoi figli e sulla fatalità del destino. Il mondo dell’erede di Buñuel – un quartiere di Città del Messico che sembra avulso dallo spazio e dal tempo – è un sottobosco popolato da freaks. In una scala che va dalla vecchia ridotta in uno stato animalesco alla ragazzina avida e meschina, si colloca una schiera di figurine disperate e sole, che lottano per stare a galla fra deformità fisiche e morali. Un immaginario da sobborghi, popolato di prostitute sull’orlo di una crisi di nervi, luchadores nani e litigiosissimi, squadriglie di protettori e papponi, mariti travestiti e adolescenti succhia-sangue. Esseri infelici che cercano soldi o qualche specie di amore. Alejandro Cantú li avvolge tutti, in un bianco e nero pastoso e lucente, fortemente contrastato e materico, creando immagini di plastica bellezza, in stridente contrasto con il disordine di fatti e personaggi. Un caos che si traduce in inquadrature articolate, piene di dettagli da scovare, nascosti nel bianco e nero e nella sovrapposizione dei piani.

Nel naufragio delle loro esistenze private, prostitute e luchadores cercano un riscatto attraverso il mestiere, quella professionalità difesa con le unghie e con i denti, che ironicamente è l’elemento che, più di ogni altro, li incatena a meccanismi umilianti. Ripstein gioca – ma difficilmente scandalizza per davvero – con il tema della “normalità borghese”, alzando di continuo l’asticella del consentito. Piccola Morte e Akita, lottatori di bassissima statura, non si vedono mai in volto. Per tutto il film, spinti da genitori-manager avidi e ubriaconi, portano quella maschera che ne sancisce lo status sociale – quello di “spalle” di luchadores ben più celebri e aitanti. Con i loro costumi fiammeggianti e le loro maschere attillatissime, si muovono sulla scena come pupazzi. Dora e Adela si imbellettano e si coprono di paillettes per occultare le rughe e le borse degli occhi, mentre donne più giovani prendono inevitabilmente il loro posto. In un universo gerarchico brutalizzato, entrambe le coppie protagoniste sono legate a un destino comune e non possono che restare unite. Lo sguardo di Ripstein per questo mondo intriso di alcool e superstizione è disincantato, mai (solo) sarcastico. Per tutto il film serpeggia una desolata ironia, e qualche forma di vera pietas è riservata a Dora e Adela, battute e vinte da un destino cui non hanno più l’astuzia e la forza di opporsi.  Eppure, moltiplicando a dismisura i personaggi di contorno e gli sketch – con i quattro personaggi e i due filoni principali che emergono a fatica dallo sfondo – si rischia (un po’ troppo) spesso il bozzetto e la caricatura.