TRAMA
La sedicenne Wadjda vive in un quartiere povero di Riyadh. Non rispetta le rigide regole della scuola islamica e vuole una bicicletta, mezzo ritenuto inadatto alle donne. Per ottenerla partecipa alla gara di recitazione del Corano che assegna un importante premio in denaro.
RECENSIONI
Primo film scritto e diretto da una donna e girato interamente in Arabia Saudita, il lungometraggio di Haifaa Al-Mansour è imperniato su un’idea fondante indubbiamente potente: presentare la rivolta contro il sistema “in nuce”, prima dello sviluppo nei fatti, attraverso il personaggio di Wadjda, adolescente che si ribellerà domani. Al centro della scrittura è quindi il bildungsroman di una donna non formata, racconto che peraltro non finisce ma si interrompe in fieri: il film è soltanto uno stralcio sulla vita della ragazza che – immaginiamo – continua l’addestramento alla libertà anche dopo e oltre lo schermo. Dall’inizio Wadjda indossa le Converse, oggetto/feticcio della società occidentale che contravviene il costume islamico. I segni di dissenso si muovono all’interno del codice, si riferiscono al look e all’educazione, ma comunque non si fanno radicali: servono piuttosto a sottolineare il contrario, la morsa della norma che vieta tutto, la scuola che non consente qualsiasi comportamento considerato deviazione dal giusto.
Tutto sommato Wadjda è infatti integrata: ha una famiglia e un amico preferito, vive in modo semplice, esprime desideri adolescenziali. In quest’ottica ciò che non è permesso suona assurdo quando non pretestuoso, come l’invito dell’insegnante compromessa ad “aggiustare correttamente” il velo. Il sistema non viene smontato dialetticamente né materialmente ma, come si addice ai sedici anni, è irriso dalla ragazza nei suoi lati più ridicoli e paradossali: l’ironia è costante, la presa in giro spesso irresistibile. E nel sistema la giovane si inserisce per sfruttarlo, a modo suo sabotarlo. L’iscrizione alla gara coranica solo per ottenere soldi, in una beffa all’estremismo, è conseguenza naturale delle premesse e insieme il primo atto ribelle: piegare l’imposizione a propria convenienza, lavorare sul codice per manometterlo. La contro-beffa, col denaro che svanisce, colpisce pesante per ricordare il radicamento del modello e la consistenza del “nemico”.
Complementari sono le figure di madre e figlia, ovvero due generazioni arabe a confronto: dopo una parabola discendente, esaurita anche la negazione della realtà, la madre viene lasciata dal marito per una seconda moglie; la tradizione prevale sui sentimenti coniugali o la rappresentazione degli stessi. Dal canto suo, implicitamente Wadjda respinge anche la subordinazione materna, accettata come naturale perché nello statuto sociale, anche contro di essa si rivolta. Le donne si specchiano tra loro, madre/figlia, l’una allineata e l’altra oppositore, l’una che ripone nell’altra l’ipotesi di rivalsa. E’ la madre che regala infine una bicicletta alla figlia, quindi autorizza il vietato, firmando una metaforica benedizione: il via libera a disobbedire, preparare una nuova “primavera” futura.
Convenzionale e sottilmente stereotipato nelle soluzioni (impossibile tralasciare che simbolo di libertà è ancora una bicicletta), il film vanta però un discreto senso del ritmo, resta acuto nella mescola dei registri e calato nel contemporaneo, mantenendosi in equilibrio tra diversi confini, dove il Corano convive con la playstation. Con una regia corretta al servizio della storia, Al-Mansour non fa l’errore di enfatizzare il drammatico, restituendo una situazione “seria” con lo scetticismo dell’ironia. Peccato per il quadro visivo finale con la bici che sfreccia controluce, unico significato palese inchiodato brutalmente all’immagine. Da applausi l’impeccabile one girl show della protagonista, la dodicenne Waad Mohammed, contrastata dalla madre interpretata da Reem Abdullah, contenitore “positivo” di dolore trattenuto a causa della violazione della dignità.