TRAMA
Leonida Riva è un cupo e solitario veterano di guerra che ha trascorso anni lontano dalla famiglia. Quando la figlia Teresa viene rapita, Leonida ritrova la rabbia e la ferocia di un tempo per salvare la sua bambina.
RECENSIONI
Se, parafrasando il noto adagio di Gotthold Ephraim Lessing, il pitch di un film fosse esso stesso il film, allora a difesa di La belva non potrebbero che levarsi pressoché unanimemente - pavlovianamente? - gli scudi, in ossequio a un altro celebre ritornello (critico) che reclama aprioristici plausi ogni volta che un regista italiano tenta «coraggiosamente» la strada del genere, ancor meglio se puntando a un bacino di pubblico potenzialmente internazionale. Nel mettere in scena la catabasi di un ex capitano dell’esercito pesantemente segnato dalle guerre combattute che, per salvare e vendicare la figlioletta rapita, riveste gli smessi panni di “belva” e si cala nella lunga notte della malavita metropolitana, il secondo lungo di Ludovico Di Martino, prodotto dalla Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibilia con Warner Bros. (più Netflix, che distribuisce), fa precisamente questo: importa il modello del revenge movie modello Io vi troverò e lo scarnifica fino a sublimarlo in un one man show tutto incentrato sulla metamorfosi attoriale di Fabrizio Gifuni, corpo alienato che nel martirio della violenza esercitata e subìta trova una tardiva, agognata redenzione. Sono le sue spalle a reggere il film, per il resto imbastito su grammatica (il meccanico ricorso al ralenti, alle accelerazioni...), situazioni (stalli alla messicana, derapate selvagge…) e scenari (la metropoli avveniristicamente anonima in cui si ambienta parte della vicenda) derivativi e segnati da livelli gratuitamente alti di testosterone. Specialmente quando La belva tenta la via del dramma, inscenando, più che l’esplorazione dei conflitti latenti tra i vari membri della famiglia, un estenuante susseguirsi di quadri a favor di colonna sonora, buoni più che altro a comporre un mosaico interrotto di micro-videoclip.