Commedia, Sala, Sentimentale

LA BELLE ÉPOQUE

Titolo OriginaleLa belle époque
NazioneFrancia
Anno Produzione2019
Durata115'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Victor è un uomo all’antica che odia il presente digitale. Quando un eccentrico imprenditore, grazie all’uso di scenografie cinematografiche, comparse e un po’ di trucchi di scena, gli propone di rivivere il giorno più bello della sua vita, Victor non ha dubbi. Sceglie di tornare al 16 maggio del 1974: il giorno in cui in un café di Lione ha incontrato la donna della sua vita, la bellissima Marianne… (dal pressbook)

RECENSIONI

Quale titolo migliore, di questi tempi? La Belle Époque: nostalgico, salottiero, squisitamente francese. Lontano come un sogno, vero come il teatro, simulatorio come il presente -qui, il soggetto è probabilmente diventato l’amore-. Due giovani amanti-innamorati si prendono e si lasciano, furenti, appassionati e conflittuali; due anziani consorti non si sopportano più, uno vive nel passato, l’altra fin troppo nel presente. Se fosse una questione manichea, fra lui e lei, fra due generazioni, fra presente e passato, sarebbe tutto magari non più semplice, ma più risolto, più definito: non sarebbe l’oggi in crisi di identità che più avanza, più mostra segni di retrocessione, perfino in un altrove che non ha mai conosciuto -“avere nostalgia di epoche mai vissute”, recita una frequentata pagina Facebook; dopo un revival decennale, esplodono gli anni 80 con Stranger Things; si annuncia il ritorno dei 90 nelle passerelle, dopo che David Lynch ci ha già riportati a Twin Peaks 25 anni dopo, con tutte le conseguenze del caso; re e regine medievalizzano lo schermo, un Primo Re costruisce un Impero sul sangue, il recentissimo Primal primitivizza lo scenario in un mors tua vita mea fra gaming e filosofia facendo archeologia immaginaria del presente che brucia, che annega, che si aggrappa all’ultima tacca di wireless di Parasite quanto alla groppa di un dinosauro che non ha mai realmente incontrato-. In piena era iper-tecnologica e post-ideologica, fluida e opinionistica, Bedos colloca il suo titolo a doppia, tripla lettura: è un’ironia sul presente e sui suoi chissà, è un sospiro verso il passato e quella bella epoca che fu, che tuttavia costituì l’ultimo sorso di caffè e letteratura nel fermento delle prime metropoli d’Europa, Parigi in testa, prima di due guerre così devastanti che, almeno, nessuno ha più avuto il coraggio di riprovarci;  ma è anche un’insegna, in uno scenario ricostruito, che ci porta in viaggio nel tempo, senza scomodare fantascienze e traiettorie interstellari, ma saldando ancora una volta quel compromesso antichissimo e senza tempo fra spettatore e spettacolo che è il laicismo più fervente, quello che porta a credere in ciò che si vede pur sapendo che è finzione, perché l’animo è tutto disposto e proteso verso quella realtà che desidera. E dunque, Victor-Auteuil, eccellente disegnatore e fumettista con la sua immaginazione prestata alla carta, non ne può più di tablet, telefonini e serie tv, di digitalizzazioni che hanno mortificato la sua arte fino a renderlo un disoccupato a tarda età; e accetta di rivivere un tempo ormai andato,un anno il particolare, il 1974: quando conobbe, innamorandosene, quella che sarebbe stata sua moglie. Sua moglie, Marianne-Ardent che è, nella nota terminologia di Eco, un’integrata; si muove nel presente agile e fascinosa, con la veemenza di chi sfida il tempo e la propria età e la repulsione verso l’apocalittico marito che, come un vestito fuori moda, “la invecchia” (da psicologa, si è già presa una rivincita sul tempo spingendosi ben oltre le parole proprio con l’ex-capo di Victor, suo -non solo- paziente). Rivederla ragazza, amarla daccapo, sentirsi di nuovo amati: un sogno reso possibile da un’arte antica, qual è il teatro, e dalla tecnologia odierna che si muove dietro le quinte del passato, per riattualizzarlo con credibilità.
Dove Victor e Marianne sono la diacronia dell’amore coniugale e del suo mutare nel tempo, Antoine, il Regista, e Margot, l’Attrice, sono la sincronia della passione amorosa e del suo mutare ogni giorno, ogni minuto perfino, da un addio a un abito da sposa (soltanto sul set?). La malizia smaliziata francese, piena di innocente libertà o di passabili colpevolezze, dà un tocco di levità a un discorso potenzialmente tutto malinconico, ma il cui substrato psicologico mette al riparo dal rischio opposto del puro divertissement: è il discorso di un 39enne, quindi di un millennial degli albori, che guarda con giocosa, tenera empatia i boomers che lo precedono, configurando anche uno scenario di gelosia verso l’uomo di quell’epoca portato alla rinascita (perfetto, anche in questo, Auteuil), ignorando deliberatamente la generazione Z che poco c’entra con un discorso contemporaneo nei modi, ma interamente novecentesco nelle ragioni. Freudianesimo incluso. Ciascuno si trova prima o poi a fare i conti con paure e pulsioni, ad affrontare il tempo e se stesso; questo, Bedos lo racconta attraverso lo specchio che divide realtà e finzione e che si sintetizza sullo schermo cinematografico. «Ho raggiunto il mio livello di saturazione con il costante aumento delle serie tv», afferma, come trovando nel film la sua Belle époque, ma soprattutto il suo bel luogo, quello dei backstage che, da regista e attore, gli è caro, in cui si muove il meccanismo che emoziona chi è dall’altra parte, colui per cui tutto viene orchestrato: il Victor-spettatore. Quella orchestrazione, che poggia su una sceneggiatura di evidente solidità, pecca forse proprio nella sua lampante intenzionalità, nel suo estro calcolato che dà il via all’immaginazione poetica, ma racchiude e conclude il tutto nella linearità del genere, nel lieto fine come necessità. Ma si tratta di un lavoro, da capo a coda, amabile senza indugi. «Au commencement était l'action», in principio era l’azione, ci ricorda la Ardent, citando Freud che cita Faust, contestando il biblico principio dal Verbo. Nel terzo millennio, sappiamo che vale anche per il cinema.

Cinecromie
Gondry è stato qui

Gondry è già stato in ogni luogo, presente o passato, in cui si parla di sentimenti su piani sfalsati -fra realtà e sogno, memoria e oblio, immaginazione e immagine-. Ha viaggiato anche fra le troppe nuance di un amore incancellabile: come dimenticare i capelli di Clementine (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) che variano da Sfacelo Azzurro a Minaccia Rossa a Agente Arancio a Rivoluzione Verde? Come non notare una strizzata d’occhio a quei capelli nella travolgente Margot di Belle époque dalla parrucca blu, poi rossa, poi biondissima? Tanto più in un film che si muove, nelle sue corde, fra gondrysmi che non afferra del tutto, ma che lo afferrano, come un’impronta inconscia. I capelli di Clementine scandivano le tappe di un amore in cui sarebbe impossibile orientarsi temporalmente senza una mappatura cromatica; i capelli di Margot ne fanno una continua oscillazione fra donna e attrice, fra emozioni reali e simulate che ruotano intorno a quel cardine che mettere in scena significa mettere in discussione: La vérité, come ci racconta l’ultimo Kore-Eda.