TRAMA
Nell’ottobre del ’57 le truppe francesi del colonnello Mathieu occupano la Casbah di Algeri rastrellandola da cima a fondo. Ali La Pointe, membro della resistenza algerina, rievoca i momenti cruciali del Fronte di Liberazione Nazionale, l’organizzazione, la guerriglia, il risveglio di una coscienza indipendentista.
RECENSIONI
Una delle frasi più intelligenti (e più gradite all’autore) che siano state spese nei confronti del capolavoro di Pontecorvo e che rende molto bene la cifra stilistica del film è stata pronunciata da un critico inglese: “La battaglia di Algeri è un film neorealista filtrato attraverso 10 anni di esperienza televisiva”. Il neorealismo in effetti, quello rosselliniano per intenderci, appare come il referente estetico più prossimo per un Pontecorvo innamorato della verità dei fatti, della loro oggettività, un realismo “neorealista” il suo che non si pone come mera mimesi del reale, né come imitazione pedissequa di un modello già portato all’apice della sua espressività dai registi di Roma città aperta e Ladri di biciclette, bensì come ricostruzione e reinterpretazione di fatti e di stili attraverso l’oggettività della documentazione storica. Non è un caso che Pontecorvo e Franco Solinas (suo fedele sceneggiatore e collaboratore di ogni sua pellicola a cominciare dal mediometraggio Giovanna del 1956) prima di ogni film si appassionino talmente tanto all’aspetto documentario da trascorrere interi mesi dedicandoli all’approfondimento storico del soggetto (motivazione ulteriore questa, se si vuole, della scarsa prolificità pontecorviana – cinque lungometraggi in una carriera pluriventennale). L’impressione più immediata è che La battaglia di Algeri sia molto più di un film neorealista, soprattutto per quanto riguarda l’ordine e la secchezza compositiva della scena, quel magistrale atto di appropriazione della lezione ejzenštejniana-pudovkiniana sulla drammaticità dei volti, che sarà poi seguita e incamerata da altre esperienze cinematografiche, in altri contesti, da Pasolini, Rosi etc; quell’uso così frequente del teleobiettivo atto a sorprendere l’oscurità scavata, drammaticissima dei volti del popolo algerino restituendone un senso di paura e desiderio di liberazione e che spezza quel ritmo filmico già di per sé sufficientemente drammatico poiché basato su un altro caposaldo dello strutturalismo del cinema sovietico ovverosia il montaggio ‹‹intellettuale›› di immagini e suono (la partitura è affidata al grande Morricone, supervisionata dallo stesso Pontecorvo, attendibile musicologo, un suggestivo amalgama di ritmi ossessivi maghrebini, le incessanti percussioni, e sonorità classiche occidentali, Bach, i canti gregoriani, atto a conferire un eminente senso di tensione e tragicità all’opera, senza tacere del “tema centrale di Ali” che tornerà alla fine sulle immagini di un’Algeria liberata, dopo la danza beffarda della donna davanti alla polizia francese e l’incessante, indelebile “iu-iu” delle donne algerine). Il bianco e nero “sporco”, sgranato, ruvidissimo, controtipato, quasi da cinegiornale, della splendida fotografia di Marcello Gatti metaforizza in tutta la sua suggestività chiaroscurale l’opposizione, quasi primigenia, di due forze, due realtà, due mondi in contrapposizione: quello degli oppressori e quello degli oppressi, in cui tuttavia la bravura, o meglio la maestria di Pontecorvo si svincola dal puro schematismo degli opposti offrendo un’opera scevra di ogni ipotesi di manicheismo e, anzi, addirittura equidistante da qualsiasi (presa di) posizione forte sul senso di “giustizia della guerra”, lui che politicamente era così fortemente schierato (marxiano dai tempi di Giorgio Amendola e Eugenio Curiel). Le riflessioni sull’assurdità della guerra, del terrore e della violenza emergono da entrambi i fronti della barricata, così come la necessità di controbattere all’istinto di sopraffazione, la voglia di battersi per un idea. Il pied-noir Ali La Pointe e il tenente colonnello francese Mathieu sono trattati da Pontecorvo con il medesimo rispetto poiché incarnano due forze che esigono la medesima dignità ontologica o quantomeno la stessa ragion d’essere per ciò che sono e come si configurano. In tal senso una delle chiavi di lettura di La battaglia di Algeri è senza dubbio il movimento. Il movimento di un ideale di liberazione che va perseguito, il movimento delle azioni terroristiche finalizzate a destituire il colonialismo francese, il movimento repressivo dei paras del colonnello Mathieu, il movimento irreversibile della storia stessa; il tutto suggellato dal dinamismo frenetico delle inquadrature (Pontecorvo fa largo uso della Arriflex che è una macchina da presa a mano, vista e considerata l’impossibilità dell’uso del dolly) dialettizzato dalla ieraticità dei primi e primissimi piani; la concettualità contrastante degli ambienti: da una parte la sarcasticamente luminosa “città europea” e dall’altra una buia, oscura, sordida ma allo stesso tempo rassicurante e non più esotica e romantica “casbah” à la Pépé le Moko di duvivieriana memoria, in quanto “antro” operativo del FLN (Fronte Nazionale di Liberazione). Movimento soprattutto che si inscrive in un quadro corale, movimento delle masse che spingono avanti il motore della storia, e non dei singoli che tutto al più, per tornare a Hegel, sono l’espressione di una non meglio definita Astuzia della Ragione, spirito guida della collettività; ma in questo senso Pontecorvo appare più disincantato e storicista che hegeliano, sicuramente più di quanto non farà tre anni dopo, programmaticamente, con Queimada. Movimento dunque anche del tempo, del tempo dell’enunciato (gli anni che condurranno all’indipendenza dell’Algeria) e del tempo dell’enunciazione (la circolarità del disegno narrativo, l’incedere a spirale degli andirivieni storici degli eventi, la scansione temporale cronachistica, la fluidità diegetica ripresa dal documentarismo mediatico).
La battaglia di Algeri fu sostanzialmente una battaglia persa da un punto di vista prettamente militare, ma una grandissima vittoria nella guerra di liberazione delle coscienze. E così pure, parallelamente, (nonostante l’iniziale incetta di premi tra cui il leone d’oro a Venezia) il film di Gillo Pontecorvo.