Criminale, Storico

LA BANDA BAADER MEINHOF

TRAMA

Le vicende del gruppo terroristico tedesco di estrema sinistra guidato da Andreas Baader e Ulrike Meinhof dai primi attentati fino (e oltre) il suicidio.

RECENSIONI

Ancora una volta il cinema tedesco post-1989 torna a fare i conti con tutto quello che in Germania precedette quella data e, dopo averci raccontato il controllo dei servizi segreti sulle vite dei cittadini della DDR (Le vite degli altri) e le difficoltà della transizione dal regime comunista alla democrazia (Goodbye Lenin!), sposta la sua attenzione sulla RFT e sugli anni di piombo, al centro di ben due lavori presentati al Festival del Film di Roma: Schattenwelt di Connie Walter e La banda Baader Meinhof di Uli Edel. Alla base di entrambi c'è l'esigenza di rielaborare uno dei periodi più neri della storia tedesca, la volontà di parlare, di esorcizzare; e però se la Walter riesce a restituire la complessità di un momento storico e gli effetti devastanti, materiali e morali, che da questo sono scaturiti, Edel si limita a una ricostruzione piatta che punta tutto sulle scene d'azione e non trova una fisionomia complessiva convincente: manca, infatti, una qualsiasi scelta formale che dia al film un indirizzo: non c'è la complessità e l'ampiezza della ricostruzione storica, né l'acutezza e la precisione dell'inchiesta, né la trasfigurazione estetica del film allegorico, né l'approfondimento individuale che permette di, più che raccontare, esprimere la Storia tramite i personaggi. Di più, quello che manca è il racconto, ovvero l'operazione di (ri)costruzione di una vicenda: manca, cioè, nei termini dello strutturalismo, l'intreccio, limitandosi Edel a mettere in scena una fabula, ovvero una semplice cronologia di fatti. Privo dunque delle condizioni per cui i protagonisti possano assumere lo statuto di personaggi, ovvero di cardini attorno al quale l'intreccio si sviluppa, il film non riesce a integrare gli avvenimenti con la dimensione profonda dei protagonisti, posta come semplice dato accessorio: spesso assente, oppure rifiutata, come nel caso della Meinhof della quale lo sprofondamento nella follia della violenza è raccontato sempre come fatto e mai come problema. Inoltre sul film grava una sceneggiatura che, beatamente ignara di qualsiasi esigenza narrativa, ha l'ambizione di racchiudere entro di sé l'intero fenomeno del terrorismo rosso – e anche qui emerge la volontà di non dare alla Storia alcuna lettura – e si illude che per farlo basti coprirne l'ampiezza temporale: di qui la seconda parte, insopportabile, sulle nuove generazioni della RAF, che non aggiunge nulla rispetto alla prima. In definitiva, una specie di Romanzo criminale privo di quella la patina pop che almeno costituiva una cifra stilistica del film di Placido. Unico dato positivo le solide interpretazioni che confermano la Gedek, Bleibtreu e Ganz, conferma della quale, peraltro, non avevamo bisogno.