TRAMA
Il barone von Chanterelle, prossimo alla morte, vorrebbe vedere sistemato il nipote che, però, è misogino e scappa in un monastero. I monaci gli consigliano di sposare una “bambola meccanica”.
RECENSIONI
Dall'operetta di A. E. Wilner (alla lontana), un universo poetico ideale per le corde di Ernst Lubitsch: sotto le spoglie della commedia leggera, può dar sfogo alla sua ferocia caustica su certe categorie sociali, sull'istituzione familiare e matrimoniale. La materia fantastica gli permette uno sfoggio espressionista di trucchi cinematografici, una messinscena che tende al favolistico, fra onirismi e bizzarrie varie (lo "split screen" sulle bocche ciarliere, i finti cavalli che si rifiutano di fare una corsa). L’intreccio è simpatico quanto prevedibile, ma la descrizione dei personaggi è dotata di un impagabile sarcasmo sagace, spesso spregiudicato quanto elegante (i monaci finto-poveri e opportunisti, la metafora dei padri che "vendono" i figli, i doppi sensi sessuali). Il profilmico è teatrale in modo insistito (scenografie di cartapesta, lune disegnate), tanto da riflettere su loro stessi sia il rappresentato, proiettato in una deliziosa quarta dimensione di fantasia, sia la sua rappresentazione: vedere il prologo (con Lubitsch in persona), che mostra un costruttore di case per bambole e approda a raccontare la storia di un uomo alla ricerca di una bambola vivente. Siamo tutti burattini di qualcuno. Memorabili i balletti "meccanici" e la prova di Ossi Oswalda, con uno spettro d’espressioni che passa da mimiche da incontenibile monella a sguardi dolci e penetranti: rappresenta la donna che si ribella alla misoginia, rivelando all'uomo terrorizzato tutte le proprie qualità. Fra schermaglie amorose e conflitti di coppia, vince sempre e comunque il “Lubitsch’s touch”, lieve ma ricco di allusioni.