TRAMA
Un vecchio libro che contiene sei storie sul vecchio West apre le sue pagine per trasferirle, una dopo l’altra, sullo schermo. Si va da Buster Scruggs pistolero cantante fino al rapinatore di banche, dall’artista itinerante al cercatore d’oro, dalle promesse d’amore alla diligenza nella prateria passando attraverso impiccagioni e filoni d’oro, il tutto condito con una massiccia dose di humor e ironia sulla vita.
RECENSIONI
La recensione contiene spoiler
Chissà se i necrologi degli ultimi decenni hanno ragione, chissà se il western è davvero morto e sepolto come si dice in giro. Una cosa è certa: di nessun altro genere è stata cantata così a lungo e in modo così insistente (ma anche, forse, frettoloso) la dipartita. Poco importa se la riflessione su questa fine prende forma attraverso il cinismo e la disillusione di un mondo che non ha più nulla di eroico e di avventuroso oppure attraverso la perdita della sua specificità (dei suoi ambienti, dei suoi spazi, dei sui tòpoi narrativi) e la commistione con altri generi. Persino quando il western cerca disperatamente di riprendere tutti gli elementi della sua classicità (come ad esempio il recente Hostiles), il risultato non fa altro che confermare il suo precario stato di salute, la sua distanza siderale dal mondo. Insomma, se è ormai da decenni che il genere fatica a farsi carico di quel mito della fondazione che ne sta alla base, è perché con il tempo forse è emersa la consapevolezza che non tanto (o non solo) di mito glorioso si tratta. Da qui il revisionismo, da qui la commistione, da qui non la scomparsa, ma sicuramente la trasformazione del western in qualcosa d'altro, di diverso.
Ora, non è certo un caso che i Coen, due che hanno da sempre dimostrato di conoscere e saper usare meglio di chiunque altro il cinema e i generi per esprimere un sentimento sul mondo, abbiano deciso di ambientare il loro film più ossessivamente pervaso dal tema della morte in questo universo che c'era una volta e che oggi non c'è più. Nei sei episodi (di durata e tono differente) da cui è composto La ballata di Buster Scruggs, gli elementi classici del western ci sono davvero tutti, ripresi con una sistematicità quasi maniacale: saloon, cowboy, indiani, duelli, rapinatori di banche e cercatori d'oro, gli spazi aperti del deserto e quelli opprimenti della diligenza. Sono però solo frammenti residuali, simulacri, tessere di un mosaico tragico, beffardo e sinceramente malinconico sulla fine. A ben guardare, quello del film antologico targato Netflix sembra essere un approdo quasi naturale per proseguire il discorso sulla frammentazione del reale intrapreso con Ave, Cesare! (lì il set si sostituiva alla realtà e diventava il pretesto per dare spazio a diverse situazioni parentetiche modellate sui generi della Golden Age hollywoodiana): in una tale struttura però non c'è più neppure spazio per un Eddie Mannix che tenti disperatamente di tenere in mano le redini di un mondo la cui comprensione è diventata impossibile. Il vecchio e selvaggio west(ern), come il presente (come la vita), è ormai un'entità frammentata e dispersa, inafferrabile e ingovernabile. C'è solo un misterioso libro (la cui prima pagina, guarda caso, rappresenta un cowboy a cavallo, testa bassa, vicino a delle lapidi) ad unire i fogli del racconto, una mano anonima a sfogliarlo, delle storie che si narrano. Ché alla fine, come recita la bellissima tagline del film, soltanto quelle resteranno: Stories live forever. People don't.
La morte, dunque. E anche piuttosto violenta. Sei storie di omicidi, anzi cinque più una, l'ultima (The Mortal Remains), che funge da ideale trait d'union, riflessione e commento su quanto visto in precedenza (esattamente il ruolo che aveva la cover di Death Is Not The End in coda a Murder Ballads di Nick Cave & The Bad Seeds, album al quale è difficile non pensare, nonostante nel film manchi del tutto lo sfondo passionale del crimine). È proprio qui che i Coen, attraverso due "mietitori" (definizione ben più complessa e aperta al sovrannaturale del letterale e terreno "cacciatori di taglie"), ci ricordano ancora una volta che non c'è un ordine nelle cose del mondo, che non esiste un senso nella vita e nella morte. «How would I know? I'm only watching», dice uno dei due in risposta ad una donna che chiedeva se le sue vittime, prima di spirare, fossero mai riuscite a trovare il senso di ogni cosa. Un'affermazione che ha tutto il sapore di una resa tanto ironica quanto, in fin dei conti, disperata: osservare (e raccontare) non basta. Al senso non ci si arriva.
Insomma, ne La ballata di Buster Scruggs quella della frontiera non è una dimensione spaziale, ma temporale, finanche vagamente metafisica (ancora The Mortal Remains, ma anche, seppur in modo più diretto e scanzonato, il primo episodio, che dà il titolo al film). La fine arriva per formidabili cowboy canterini, rapinatori di banche, cantastorie mutilati, furfanti e timide donne. E arriva semplicemente perché da qualche parte c'è un pistolero più veloce, perché si viene scambiati per ladri di bestiame, perché non si è più quello che un pubblico sempre più affamato di sensazionalismo a buon mercato desidera, perché un uomo che si credeva morto torna improvvisamente in vita, oppure perché non si ha abbastanza coraggio da attendere l'esito di uno scontro. Arriva così, con una facilità e una banalità che annienta ogni possibilità di trovare un senso all'esistenza. La fine arriva, e si può solamente osservare impotenti, senza mai capire. L'incipit di Blood Simple vale ancora: «I don't care if you're the Pope of Rome, President of the United States, or even Man of the Year. Something can always go wrong».
C'è una diligenza là fuori, sempre pronta a partire.
Un pistolero dall’ugola e dal grilletto facili soccombe al nuovo arrivato. Un rapinatore si libera da un cappio per indossarne un altro. Un impresario teatrale girovago ritocca il suo spettacolo e il registro dei suoi dipendenti. Un cercatore d’oro dialoga con la natura e resiste allo sfruttatore di turno. Una ragazza si unisce a una carovana di pionieri e ne condivide sogni e brutalità. Una diligenza trasporta personaggi e storie.
Ritornare oggi al genere più iconico e seminale della storia del cinema (americano – ma siamo tentati di rinunciare alla circoscrizione), nasconde (quasi) sempre intenzioni di ben più ampio respiro rispetto al semplice recupero di un immaginario che ha avuto i suoi indimenticabili momenti di gloria, un inevitabile picco e un inesorabile declino (suicidandosi, se si vuole simbolicamente, con il tracollo de I cancelli del cielo). Forte di stilemi, temi e valori precisi e subito riconoscibili, metabolizzati nella coscienza collettiva, il western moderno (da Balla coi lupi e Gli spietati) è più facilmente incline a intavolare riflessioni metafisiche, metatestuali, quantomeno metaforiche, dalla più banale metamorfosi e problematica attualizzazione/revisione del mito al più bizzarro e acuto discorso metalinguistico (che si è visto ad esempio nell’altro western in concorso a Venezia, firmato da Audiard).
L’ultimo film dei fratelli Coen va quindi al di là del mero omaggio a un genere e a un formato, quello dei film antologici, raramente frequentato negli ultimi decenni ma in realtà idealmente confluito in certa serialità streaming e nel suo potenziale bingewatching: ricordiamo che il presente film è a tutti gli effetti una serie in potenza, distribuita da Netflix nel suo circuito ma anche in sala, come espressamente richiesto dai registi. Esso si configura infatti come un condensato metanarrativo di tutti i topos costituenti il genere, un catalogo certosino e completo di personaggi, situazioni, ambienti, linguaggi, forme del cinema western dagli albori al suo tramonto. Emblematico e perfettamente orchestrato è a questo proposito l’ultimo episodio, che è a sua volta un contenitore caleidoscopico di narrazioni e uno studio sui loro meccanismi, una diligenza inarrestabile che trasporta cinque variegati personaggi/storie e un morto, come il film è veicolo irresistibile di cinque variegati racconti e un sesto palesemente distaccato e trascendente, racchiuso e non conchiuso, emanante un’aura di morte (e trasumanazione nel metatesto narratologico). E squisitamente coeniana è la fallimentare ma – nel bene o, più spesso, nel male – non improduttiva opposizione al determinismo, che anima ciascuno di questi episodi e in particolare proprio l’ultimo, il cui finale è giustamente lugubre ma aperto, come evidente ma tutt’altro che definitiva è la morte del western.
A ben vedere però, nell’affrontare un genere così fondativo e fondamentale con cura dissezionatrice, il film fa un passo ulteriore e arriva a disegnare un profilo di generi e meccanismi narrativi del cinema tutto (se non della narrazione tout court), con un approccio tutto coenianamente autoironico alla mitopoiesi. Il film propone così un formidabile florilegio di generi cinematografici: dal musical scanzonato, trash, pirotecnico del primo episodio alla pièce teatrale in unità di luogo e tempo che diventa motel horror dell’episodio finale, passando per heist movie, buddy movie, realismo, espressionismo, idillio ambientalista, film di guerra, sentimentale, commedia, dramma. Né ci si fa mancare una panoramica enciclopedica di stili (minimalismo, surrealismo, naturalismo, barocco, grottesco) e tecniche di scrittura e di découpage (dal save the cat alla reiterazione, dal jump cut al long take, dal dettaglio al panorama, dal protagonista che parla continuamente in camera alla riduzione all’osso dei dialoghi). Il finale è allora ancora più potente, soprattutto alla luce (crepuscolare) della natura ibrida del film, a cavallo tra serialità televisiva e grandeur cinematografica: in un presente di messa in discussione del medium e di dibattito a suo modo epocale sulle modalità di fruizione (e quindi di narrazione), il film si afferma come silenzioso traghettatore, tramite fra due mondi, profeta di una morte della narrazione classica che può (e deve?) sicuramente essere momento principe di rinascita. Su di essa però discretamente non ci si pronuncia, chiudendo per il momento serafici la porta su un futuro sicuramente denso di sorprese. Almeno fino alla prossima stagione.