TRAMA
Dopo tanti anni di lontananza, Krisha ritorna dalla famiglia per una festa. In questa riunione vede un’opportunità per rimediare agli errori del passato e mostrarsi più equilibrata. Purtroppo i suoi fantasmi si faranno sentire e i suoi deliri trasformeranno la vacanza in un incubo.
RECENSIONI
Diretto da Trey Edward Shults a 27 anni, grazie a una campagna di Kickstarter e all’aiuto organizzativo e recitativo di amici e famigliari, girato in nove giorni nella sola casa di famiglia, Krisha è un esordio di quelli rari nel cinema americano contemporaneo, un film che aveva tutte le carte in tavola per risultare l’ennesimo exploit indipendente dalla grana digitale spessa e lo sguardo iperrealista, carineria narrativa e conformità Sundance al già visto e sentito, e che invece si rivela essere un film sfacciatamente autoriale sulle verità poco confortevoli e gli sfregi cicatriziali della vita famigliare. Senza che questo assuma mai i toni melodrammatici e pesantemente scritti del classico dramma borghese, bensì lasciando spazio all’improvvisazione, al ruolo drammatico e tensivo degli spazi domestici, al fluire quasi documentaristico di energie sotterranee dovute ai legami di sangue extradiegetici che uniscono gli attori del cast e avvicinano molto l’esperienza di lavoro sul set allo svolgersi di una seduta collettiva, processo terapeutico di gruppo. Ma soprattutto Krisha si distingue dalla norma dell’esordio indipendente per la capacità evidente di intessere un rapporto denso con le potenzialità espressive della macchina cinema, intesa anzitutto come disposizione stilistica libera ed eterogenea. Il risultato è un film aggressivo, un kammerspiel travestito da horror psicologico che è character study della sua protagonista e delle fluttuazioni che quella presenza alterata, ingombrante, innesca nell’ambiente. Un film inaspettatamente vicino alla percezione femminile dell’essere, capace di uscire dalla comfort zone dell’ennesima donna giovane, bella e ideale coinvolta nel suo percorso di enpowerment, per trovare invece tutti i suoi ancoraggi nella rappresentazione di lei, Krisha, la donna invisibile.
Sessanta e passa anni di un corpo sovrappeso, una cascata di capelli bianchi, fieri, e le rughe, profonde, che segnano il viso come lasciti di guerra. Una fisicità non conforme, mutilata da un dito troncato e avvolto ancora in garze sporche e pomate untuose; una carne e uno sguardo imponenti, che aprono e chiudono il film ponendosi davanti allo spettatore, sfida frontale, come a gridare “eccomi, il mio corpo è questo, è tutto ciò che sono, e questa è la mia storia”. Si diceva in apertura del ruolo dei legami famigliari, perché la Krisha del racconto è anche Krisha Fairchild, zia del regista Shults, che nel film interpreta invece Trey, personaggio ricalcato su di sé – aspirante regista – e figlio rinnegato e disgraziato della Krisha finzionale, cresciuto dalla zia Robin (che nella realtà è invece sua madre). Insomma, Shults mette in scena e dirige la sua famiglia, affida alla zia il ruolo della madre e viceversa, recluta altri parenti per riempire la casa di famigliari chiamati a raccolta per il Thanksgiving; fino alla nonna, affetta da demenza senile e comunque coinvolta, con delicatezza e umanità laceranti, nel processo del film, protagonista di momenti improvvisati in cui realtà e finzione dei legami e delle situazioni si mescolano tra loro.
La storia segue il tentativo di Krisha, alcolizzata e bipolare affetta da dipendenza da farmaci, di rientrare sobria nel tessuto famigliare, ritrovare il figlio abbandonato cresciuto dalla sorella e tornare, forse, a far parte della sua vita. Ma il nemico che vive dentro di noi è un qualcosa di sempre affamato, una forza centripeta che fa deragliare Krisha e la porta a soffrire l’estrema tensione emotiva del confronto e del tentato ritorno in famiglia, fino a spezzarsi. Il crollo, racconta Shults, deriva dall’analoga sorte di una sua cugina, tossicodipendente in riabilitazione che per l’appunto ricade nell’uso proprio durante una celebrazione famigliare, e da lì morirà di overdose poche settimane dopo. Ma l’aggrovigliarsi di vita personale e rielaborazione artistica non si esaurisce qui, perché il nucleo vero che smuove il film è il grande assente del racconto, il padre di Shults, che da dichiarazione del regista sappiamo esser stato tossico violento e distante, figura illeggibile e inamabile, imperdonabile fino al letto di morte. E se pensiamo che proprio l’ultimo confronto tra padre e figlio avuto in ospedale sarà ripreso pari pari nel terzo film di Shults, Waves, e che il secondo It Comes at Night, incubo pandemico e notturno sulla crisi domestica, nasce in risposta alla morte del genitore, appare chiaro come Krisha sia il prototipo brillante e sofferto di un autore il cui fare cinema significa anzitutto confrontarsi con demoni interiori, traumi biografici, recrudescenze e ferite e cisti memoriali nel tessuto cicatriziale dell’io. E questo senso di identità seminale, di esordio che è anche tracciamento e nascita di un approccio autoriale, si formalizza in quel rapporto denso con le immagini e lo stile di cui dicevamo, in un assedio mordente al reale che non si accontenta di riflettere l’immediatezza del dato sensibile ma cerca sempre la trasfigurazione e rielaborazione linguistica come vie per innescare e alimentare l’empatia spettatoriale nei confronti di lei, Krisha, che seguiamo fino a giù, in fondo alla spirale, percependo e condividendo il suo dolore, il dramma di chi cerca e fallisce. Ecco così comparire per la prima volta una serie di marche stilistiche che torneranno fedeli nei film successivi, dal ricorso espressivo a formati diversi all’uso claustrofobico degli spazi domestici, dall’addossarsi pesante ai corpi e la pelle dei personaggi alla disposizione pressoché onirica, sospesa, di molti snodi narrativi.
Vincitore di due premi importanti al Southwest Film Festival, l’esordio di Trey Edward Shults dovrebbe essere un film piccolo, contenuto, realizzato com’è con soli 30mila dollari, ma di fatto è tra le opere prime più interessanti del recente cinema americano, un gesto filmico che grida urgenza, fame di immagini, desiderio di arrivare ed esserci negli occhi di chi guarda, con coraggio e sfacciata hybris stilistica.
