TRAMA
La quattordicenne Maria, cresciuta in una famiglia di cattolici preconciliari, si prepara a ricevere la cresima.
RECENSIONI
In quattordici momenti, che danno luogo ad altrettanti piani sequenza, avvincenti quanto terribili nella loro essenzialità, Kreuzweg (lett. Via crucis) racconta la Passione di una ragazzina minata nel fisico e, più ancora, nello spirito da una feroce autodisciplina. Il destino di Maria è lucidamente riassunto dal sacerdote, serafico e implacabile messaggero di morte, nella prima stazione (un totale caratterizzato da un chiaroscuro quasi caravaggesco) e nevroticamente, pateticamente ricostruito dalla madre nella tredicesima, penultima tappa di un percorso che si svolge pressoché integralmente in interni, enfatizzando in tal modo il senso di oppressione che scaturisce da immagini e dialoghi. E anche quando la scena prevede l'en plein air (stazione seconda e ottava), lo spazio è comunque circoscritto (Maria chiude gli occhi per non vedere il paesaggio, i personaggi lottano per entrare o per uscire dall'inquadratura, l'immagine riprodotta deve veicolare un ricordo diverso di una giornata comunque detestabile, gli alberi racchiudono come una quinta teatrale l'addio a Christian). La macchina da presa si muove (un carrello laterale) solo nelle stazioni nona e dodicesima, in coincidenza con due snodi fondamentali del racconto, non casualmente collegato al sacramento dell'eucaristia, il momento in cui il divino si fa umano e viceversa. La trascendenza, traduzione plastica del sogno (o della predestinazione?) di Maria, si manifesta solo nella quattordicesima stazione, con un movimento ascensionale della macchina da presa che svela, finalmente, un paesaggio di ampio respiro, sebbene brullo, punteggiato di sepolture, con una sola figura umana che, in silenzio, esce definitivamente di scena. L'assenza di musica extradiegetica, i dialoghi scarni e la recitazione raggelata (un trionfo di sguardi opachi e mezzevoci abilmente intrecciate) non devono però far pensare a un'opera monocorde o, peggio ancora, autocompiaciuta. Kreuzweg rigurgita di invenzioni visive e sonore (una per tutte: l'Ave Maria recitata a due voci e in due lingue), ogni inquadratura è, per il modo in cui ricorre alternativamente alla profondità di campo e alla piattezza dell'immagine, un gioiello a sé stante, la tensione cresce quasi impercettibilmente, fino a esplodere nella dodicesima stazione, in corrispondenza del doppio antifrastico miracolo: il corpo di Cristo dà la morte, il bambino inizia a parlare e chiama chi non può più rispondere. Ma la cosa forse più sconvolgente è che il regista e cosceneggiatore Brüggemann (Orso d'Argento a Berlino 2014) riesce a contemplare cotanta materia con occhio lucido quanto dolente: non si ha neppure per un attimo la sensazione di assistere a un sermone sul fondamentalismo cattolico, mentre si fa strada l'impressione di trovarsi in un vicolo cieco, che va comunque percorso sino in fondo, con una determinazione che nessun timore, nessuna angoscia riescono ad abbattere del tutto. Il piccolo miracolo di un cinema sacro, oltre ogni religione.