Criminale, Drammatico, Recensione

KING OF NEW YORK

Titolo OriginaleKing of New York
NazioneItalia/U.S.A.
Anno Produzione1989
Durata103'

TRAMA

Il boss mafioso Frank White torna in libertà dopo anni di galera, New York è in preda a molteplici bande di criminali provenienti da ogni parte del mondo ma White ritorna ferocemente in scena nel tentativo di spazzare via la concorrenza. L’obiettivo non è il dominio assoluto della città, ma raccogliere fondi per costruire un ospedale nel Bronx, un ospedale che possa servire a tutte le persone dei quartieri poveri dove la giunta cittadina ha tagliato i fondi per l’assistenza medica. Il tutto sotto il fuoco incrociato di rivali e polizia.

RECENSIONI

Ferrara punta lo sguardo (la cinepresa) su un luogo, New York, e su un uomo, Frank White. New York è una presenza fortissima in questo film eppure non credo che sia in assoluto "il luogo" del film, non il luogo in cui si svolge la vicenda, ma quello spazio metaforico su cui si posano gli sguardi di chi dei film è artefice (per inciso: Ferrara e Nicholas St. John) , e i nostri, si presume. Questo spazio all'interno del quale dovrebbe svilupparsi il tema del film sembrerebbe essere uno di quei temi immortali, che moriranno insieme all'arte, ovvero il confine tra bene e male. Un confine restringe, soffoca, reprime e quando il confine viene meno il contenuto può dilagare, esplodere con violenza, fino a soffocare. Ma il confine tra bene e male è un luogo che non c'è, o meglio esiste soltanto fino a quando lo si pensa. Il carcere è l'inferno, e White ritorna dall'inferno cambiato, segnato nel profondo e con un progetto da attuare con ogni mezzo necessario (o forse con il solo mezzo possibile). Servono soldi, molti e subito, e White constata di non poter fare affidamento sulle autorità cittadine per la costruzione dell'ospedale e quindi decide di fare da sé, e di agire al di fuori dei confini del sistema, laddove esiste un'altra autorità, forte, potente, ricca e armata. Se i quartieri della New York "bene" possono contare su un sindaco che si occupa dei loro problemi, l'altra parte di New York, quella dei poveri e dei diseredati, potrà contare su un re e quel re dovrà essere Frank White, un principe nel senso machiavellico del termine, autoritario, forte, spietato, freddo, pronto ad esporsi sempre e comunque in prima persona e a non fermarsi davanti a nulla pur di portare a compimento il proprio disegno. Non un eroe del nostro tempo, tutt'altro, ma un eroe del medioevo più cupo ed efferato, un Aguirre lucido, meno disperato ma ugualmente folle nel suo slancio verso l'alto.
Ferrara immerge la vicenda negli scenari foschi e notturni a lui cari, in pieno contrasto con il biancore (White) mortale del volto di Walken, salvo poi addentrarsi di tanto in tanto nello sfarzo dell'hotel Plaza in cui White alloggia e negli ambienti dell'altissima borghesia newyorkese. Ciò nonostante un film cupissimo, funereo, rigoroso e gelido, proprio come il personaggio di Frank White, interpretato da un Cristopher Walken assolutamente inarrivabile nella sua glaciale compostezza. "Walken interpreta White con una forza compressa così carica di ambiguità che avrebbe meritato un secondo Oscar (dopo quello per Il cacciatore nel '78)" (Morando Morandini). Almeno due momenti su tutti meritano di essere ricordati, quello dell'omicidio di un poliziotto alla veglia funebre di un altro poliziotto ma soprattutto le sequenze finali in cui White, morto vivente, vaga nel traffico col soprabito chiuso. Indimenticabile. Un film grandissimo, una delle opere più alte di un regista che ha definito le coordinate del cinema indipendente statunitense. La sua visione accresce però la nostalgia per una delle collaborazioni più prolifiche e interessanti degli ultimi vent'anni, quella tra Ferrara e lo sceneggiatore Nicholas St. John, conclusasi prima del sottovalutato New Rose Hotel).

Per quanto la frammentarietà della sceneggiatura di Nicholas St. John provi ad ingarbugliare la matassa, il soggetto di partenza è abbastanza banale: la differenza la fa il modo di Abel Ferrara di ritrarre i personaggi devianti, con la cruda violenza e gli accenti metropolitani a rimpiazzare l’introspezione, con un magnifico stile fatto anche di prepotenti colori e luci psichedeliche. È insolito, anche, l’approccio morale: polizia e criminalità sono messe sullo stesso piano e all’autore interessa “inquadrare” la brutalità in quanto tale, né fine a se stessa né strumentalizzata. Il risultato è un’opera ricca di magnetismo, con algidismo disarmante ed emozionante, figlio della figura consegnata al carismatico Christopher Walken, interprete che, pur costretto nelle maglie di un carattere ondivago, fa la differenza nel dipingersi sicuro di sé e anticonvenzionale (fin dall’idea di avvalersi di spacciatori afroamericani). In una pellicola che, all’epoca, era la sua più costosa e rivolta alle appetenze del mercato, il Ferrara indipendente alza anche l’asticella delle ambizioni, in termini di elaborazione in noir di umori sotterranei e dicotomie Luce/Oscurità: questione di ellissi e non detti, e di elusione della trasparente insipidezza da ‘Romeo e Giulietta’ di un China Girl, confondendo le acque con maggiore classicità estetica e con la solo apparente ovvietà dell’iter criminale d’ascesa (Frank White parrebbe mosso da ideali umanistici, nel momento in cui dona i proventi ad un ospedale per indigenti). Come in tutto il cinema di Ferrara, contano i dettagli e le atmosfere, più della narrazione che è sempre, volutamente o inevitabilmente, un percorso accidentato.