Avventura, Fantasy, Recensione

KING KONG (2005)

Titolo OriginaleKing Kong
NazioneU.S.A./Nuova Zelanda
Anno Produzione2005
Durata187'
Tratto dadal soggetto di Merian C. Cooper
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Una troupe cinematografica va a girare su un’isola sconosciuta, chiamata Skull Island. I malcapitati dovranno vedersela con indigeni ostili, dinosauri, insetti giganti e, sì, un gorilla alto circa 8 metri che rapisce la protagonista.

RECENSIONI

Il film ha una prima parte lunga e articolata in cui Peter Jackson parla (di) cinema a diversi livelli. Strutturalmente ragionando, le leggi non scritte del monster movie dicono che il pezzo forte, il mostro, deve farsi attendere. La chiamano suspense: annuncio di 'un qualcosa' di imminente, esasperazione della durata che vi conduce. King Kong (1933) ha settato lo standard e tutt'oggi incarna il duplice paradigma dell'attesa, ché il pubblico aspetta sia il mostro diegetico e i suoi effetti sulla narrazione che quello tecnologico, per vedere se davvero 'è fatto così bene come dicono' (all'epoca le massicce dosi di animazione a passo uno stupirono e non poco per quantità e qualità). Jackson ha così preso due scimmioni con una banana, citando letteralmente l'archetipo e riproponendo una struttura sempreverde, giocando altresì con l'attesa del suo pubblico che si aspetta, da lui e dal suo staff degli SFX, letteralmente meraviglie. Anzi, ha fatto di più: dilatando i tempi fino a raddoppiarli ha chiarito subito che il suo King Kong (2005) sarà una magnificazione anabolizzata del prototipo, in tutto e per tutto. Sottotesti compresi. Anche nel primo kong, infatti, si parlava di cinema e ci si dava all’auotoreferenzialità, soprattutto per voce del personaggio di Carl Denham, ambizioso regista che diceva di voler girare un film straordinario, storico, che stupirà tutti. Jackson rincara ovviamente la dose, mantenendo e amplificando le manie di grandezza di Denham, trasformando Ann Darrow da biondina anonima con trascorsi da comparsa in un'attrice di Vaudeville brava e orgogliosa quanto sfortunata e traslando Jack Driscoll da lupo di mare tutto d'un pezzo in drammaturgo talentuoso ed incompreso. Ciliegina sulla torta di questo amore per il cinema gridato ai quattro venti, le citazioni e i riferimenti puntuali al prototipo, come l'incipit nel quale si getta uno sguardo sulla New York degli anni '30 ('omaggio' al clima storico-culturale nel quale venne prodotto il film), la pedissequa riproposizione di alcune sequenze (il furto della mela) o i simpatici giochini metacinematografici [Denham che si lamenta di non poter ingaggiare Fay (Wray) perché già impegnata con Cooper in un altro progetto].

Parte II: Impara a conoscere il tuo gorilla

Giunti sull'isola, la musica cambia (non quella di James Newton Howard, purtroppo, che è un po' anonima e fa decisamente rimpiangere la magniloquenza, con stile, della trilogia dell'anello firmata Howard Shore). La WETA si scatena e dà un senso alla storiella, ripetuta ovunque fino alla nausea, di Peter Jackson bambino che vede King Kong e sogna di fare il regista. Rieccolo dunque, quel bambino, col suo re kong da girare e 200 milioni di dollari da spendere. Bigger, faster, better, more! La creatura 'né uomo né bestia' è splendida, etologicamente corretta e molto ben caratterizzata, mentre per il resto ci si lancia in un'ipertrofia visiva ed effettistica che lascia un po' storditi e segue, in maniera per l'appunto 'infantile', la regola dell'accumulo: nel primo kong c'era un lungo scontro con un T-Rex? Mettiamone un branco e rendiamo la plural tenzone interminabile. Un brontosauro usciva dall'acqua e inseguiva i componenti della spedizione? Perché non un'intera mandria, allora, con qualche velociraptor di contorno? Si trova anche il tempo di fare della filologia filmica, 'ricostruendo' una sequenza eliminata dall'originale (quella con gli insetti giganti) e rendendola, ma non c'era da dubitarne, eccessiva e insistita fino al ridondante. E poi ancora campi lunghi e lunghissimi, skycam e travelling maestosi. Il troppo forse stroppia forse no, di certo ci si ubriaca, difficilmente ci si annoia. Ma c'è dell'altro. In quest'ottica di elevamento a potenza dell'originale viene coinvolto anche il legame che si crea tra la Bella e la Bestia. Se nel film del '33 si intuiva (chiaramente) che la Bestia 'si innamorava' della Bella ma quest'ultima rispondeva picche, Jackson configura tra i due una articolata e molto ben sviluppata storia di reciproco amore. Impossibile.

Parte III: del mélo

Tutto era iniziato in una sequenza chiave del film, quella in cui Ann Darrow cerca di farsi amico Kong a 'colpi di teatro'. Il tentativo riesce alla prima, Kong viene immediatamente stregato dalle artistiche evoluzioni della Bella e i due diventano inseparabili. Nasce 'qualcosa', un amore impossibile e impossibile da descrivere (ma molto ben illustrato da Peter Jackson) che mina anche l'amore 'tradizionale' appena sbocciato tra Ann e Jack. Subito all'inizio della terza e ultima parte del film capiamo, infatti, che una volta rientrati in patria tra l'attrice e lo scrittore è già finita. L'unica spiegazione, stranamente plausibile, è che la Bella abbia il cuore occupato dalla Bestia, resa intanto schiava ed esposta al pubblico ludibrio newyorkese. Dalla fuga di Kong fino alla sua nota e inevitabile dipartita, il regista ha modo e tempo di suggellare, esplicitandola, la love story: i due amanti si cercano e si rincontrano in una bella sequenza in cui lo spettatore è portato a immedesimarsi con la Bestia: è infatti una sorta di soggettiva metaforica (Branigan) quella che, ad altezza uomo ma con l'occhio innamorato di Kong (character projection, direbbe ancora Branigan), ci mostra l'apparizione della Bella in tutto il suo angelico, illuminato splendore. Ma che Peter Jackson ha definitivamente vinto la partita lo scopriamo solo a breve, quando sfida il ridicolo e lo sconfigge inesorabilmente facendo pattinare sul ghiaccio i due sfortunati piccioncini (il cui amore ha il destino segnato dalla Storia del Cinema prima che dal buon senso), intenerendo i cuori di tutto il pubblico pagante. L'idillio è interrotto bruscamente dall'intervento dei militari, il resto è storia nota: la scalata dell'Empire, gli aerei da caccia, il colpo di grazia inferto proprio mentre Kong cerca l'ultimo momento di intimità (Cfr. l'originale) con la sua Bella, che nel pre-finale abbraccia, triste e distaccata, il nasuto intellettuale accorso a 'salvarla'. Chiudono il film le parole dell'uomo di cinema Carl Denham, le stesse che pronunciò 72 anni fa: 'non sono stati gli aeroplani, è stata la Bella a sconfiggere la Bestia'. Solo che stavolta hanno perso entrambi.

The End

Progetto a lungo cullato da Jackson (girò a 12 anni un Super 8 sul bestione), che continua a portare al cinema i suoi amori d’infanzia. E’ un mix fra il capostipite, inarrivabile capolavoro di Schoedsack, cui rende omaggio in vario modo (l’altezza della scimmia, l’ambientazione anni trenta: e inserisce i ragni giganti che nell’originale furono girati e tagliati), e il remake del 1976 prodotto da De Laurentiis, che umanizzava (troppo) la creatura. Spettacolare e commovente, ma non dosa bene dramma e ironia e scivola nel patetismo (come spesso accade alle pellicole del regista): come in Sospesi nel Tempo, si prende sul serio e rischia grosso con l’auto-parodia (dovuta, forse, ad una sceneggiatura che risale al 1996 e che guardava all’avventura ironica di Indiana Jones). Jackson è un grande appassionato esecutore, che certo passerà alla Storia per l’impiego degli effetti speciali della sua Weta (ma il digitale qui non è cosi “invisibile” come ne Il Signore degli Anelli), ma non ha mai avuto quel “quid” fuori norma che, ad esempio, hanno fatto del King Kong originale una pietra miliare. Il personaggio/regista di Jack Black, soprattutto all’inizio, ricorda il Colin Mckenzie, genio incompreso, di Forgotten Silver, ma si rivelerà solo un’artista che tradisce l’oggetto del suo amore.