TRAMA
Dave Lizewski vuole diventare un supereroe o meglio ci prova.
RECENSIONI
Kick Ass “Why did you save the Teddy!?”
Red Mist “I don’t know…”
Non è più tempo per gli Eroi. Quelli veri agiscono dietro la ribalta scavalcando pericolosamente i confini etici, perpetuando una malsana psicosi di violenza, a tratti così intenzionale da sorvolarne il possibile ammiccamento parodico. Rimane un giovane come un altro, un poco nerd (ma non abbastanza), etichettabile come loser (ma non abbastanza), con la sola consapevolezza di non essere niente di trascendente. I just exist, né più né meno. L’improvvisata trasformazione in un freak-hero, senza poteri, è mossa unicamente dal tentativo di sconfiggere un malinconico stato di spettatore, succube voyeur di un’esistenza spesa tra onanismo youtoubico che si estende ad ampio raggio sull’intero modo di fruire il “reale”. Questo è il vero male da sconfiggere, il totale consumo, apatico, della violenza. Esserne freddi partecipi, senza discernimento, senza un benché minimo giudizio. Non c’è differenza tra masturbarsi sui corpi nudi di una tribù africana o assistere all’esplosione di un corpo dentro una cella a microonde. Serve una reazione ed ecco apparire sul grande schermo dell’abominio virtuale un superhero un poco sfigato: Kick-Ass.
E Kick Ass si scontra con dolore su quello che è il Mondo, ne busca di santa ragione, agisce nell’insana ingenuità di un teenager che vuole essere qualcuno. Il travestimento funziona in quanto caricatura, adombrando la normalità di Dave, consacrandolo nell’immaginario di una società che ha bisogno di un supereroe non per sconfiggere il Male, ma per gingillarsi nell’autocompiacimento di una nuova moda. Resta così una mancanza, tanto triste quanto piena di rabbia, il cui dubitabile antidoto è la missione di Kick Ass. Ma quale missione? C’è Frank D’amico da sconfiggere, il più stereotipato boss di una struttura criminale italo-americana. Un nemico quasi trovato per caso dopo essere entrato in contatto con Big Daddy e Hit Girl, due che ci sanno realmente fare, due che obbligano forzatamente il successivo processo di formazione di Dave. Non è però un prendersi le proprie responsabilità di paladino della giustizia, quanto un inevitabile passaggio di testimone (Il corpo di Batman/Big Daddy che arde) verso un’iconografia che invece di cambiare si rinforza inquietantemente. Kick Ass uccide, alla fine ci riesce, si prende in pompa magna il suo ritaglio di vera gloria, sbriciola la serie di fotogrammi su cui è rappresentato l’antagonista tout court (la sequenza in stile True Lies va oltre il semplice richiamo cinefilo), ma perde irrimediabilmente l’innocenza. La maturazione si raffredda nella sottrazione di qualcosa di molto più importante. Una normalità acquisita che rimbomba di conformismo. Ci si può liberare apparentemente dal ruolo di semplice astante entrando nel circolo della violenza, mettendola in atto. Il Teddy Bear non ha bisogno di proiettare una nuova carneficina, ormai non serve più. Resta un vuoto, e Vaughn ce lo “sussurra” a piena voce, che nemmeno una calzamaglia può colmare.
Gli inglesi Matthew Vaughn e Janet Goldman (sceneggiatrice) ci hanno creduto fino in fondo e, dopo il rifiuto delle major, hanno trovato da soli i finanziamenti per trasporre il fumetto dello scozzese Mark Millar, disegnato dal grande John Romita jr. (che qui “anima” anche le parti in fumetto tridimensionale). La loro opera è diventata di culto nel giro di due anni (nel 2010 al cinema e poi in homevideo), ma non è la prima parodia con nerd supereroi del grande schermo (vengono in mente Mystery Men, Sky High e, nel mescolare supereroismo e sua destrutturazione politicamente scorretta, Watchmen). Possiede, però, tre carte vincenti: l’idea del ragazzo normale che, anche solo nel provarci, diventa (super)eroe suo malgrado, è resa con una commedia realistica, nel senso che ritrae, senza edulcorazioni, il quotidiano dello sfigato medio e, in modo credibile, le evoluzioni di ciò che accadrebbe se si mettesse in costume e cominciasse a cercare i malviventi. Peccato che sia una traccia che, per rincorrere l’azione mirabolante, viene abbandonata quando entrano in campo padre e figlia in costume, con azioni che Vaughn preferisce “sovrumane”. Ma quest’ultime due figure trasportano la seconda carta vincente, con loro la commedia si trasforma in dramma di vendetta, con sottotesto sui super-problemi, prima di tutto verso se stessi, di supereroi al limite della psicopatologia. Il terzo ingrediente vincente, quello che sovrasta tutti gli altri, è il personaggio di Hit-girl, un’undicenne killer terribile ma dalla parte del Bene, che fa impallidire tutte le babydoll sado-fetish dell’anime giapponese: Chloe Moretz che massacra e affetta senza pietà i nemici, con un malessere sotterraneo e non demenziale, è qualcosa che, almeno nel cinema di supereroi o simili, nessuno aveva ancora osato fare. Azione e spettacolarità a parte, infatti, il sottofondo è impercettibilmente amaro (il mood, invece, resta scanzonato): Hit-girl è un essere allevato dal padre alla sola guerra, con infanzia rubata e psiche compromessa.