Drammatico, Recensione

KATYN

TRAMA

Polonia, 1940. L’Armata Rossa ha ormai varcato il confine orientale e più di 250.000 ufficiali e soldati vengono catturati e rinchiusi in campi di prigionia. Mentre la popolazione è in fuga, stretta nella morsa dei sovietici e dei nazisti che si sono accordati per spartirsi l’Europa centrale, il Commissariato sovietico per gli affari interni dirama l’ordine di assassinare 15.000 prigionieri di guerra polacchi, che verranno sepolti nelle fosse comuni nei pressi della foresta di Katyn.

RECENSIONI

Classico nel respiro, ma mai adagiato su una facile retorica, Katyn consolida una realtà fino a pochi anni fa affondata nella reticenza, salda debiti personali (fu a Katyn che il padre di Wajda trovò la morte) e rimossi collettivi. Successo commovente in patria, sfuggito, per l’indignazione di Wajda, ad ogni strumentalizzazione, è un affresco che annega l’epica nella coralità, fa del pathos una questione morale, costruisce personaggi sfaccettati, frammenti differenti e scostanti di uno specchio che riflette la tragedia nelle vicende personali. E’ un film sulla rielaborazione di un lutto, di un efferato crimine che insieme ai corpi ha sepolto la verità: disinteressato alla denuncia, Wajda fa di Katyn un documento sulla memoria del dolore. Per questo la sequenza della strage, le cui conseguenze riverberano strazianti lungo l’intero arco dell’opera, è posta in chiusura: dopo l’insostenibile rito della morte lo schermo si fa nero, sulle note del Polish Requiem di Penderecki. Wajda ci interpella: Katyn pretende la nostra memoria.