TRAMA
I fratelli Stan e Lion cercano di ritagliarsi un ruolo da protagonisti nel mondo della boxe. Quando Stan non ripaga un pericoloso boss criminale, i due giovani sono obbligati a compiere un viaggio per partecipare a un torneo ad alto rischio.
RECENSIONI
Il titolo originale di un ottimo romanzo di formazione di Joe Lansdale è All the Earth, Thrown to the Sky. Mi è tornato in mente a proposito dei nomi parlanti, che abitano questo interessante lavoro di Max Winkler (un’opera terza, dopo Cerimony e Flower): Lion, il lottatore, il selvaggio con la coda, e Sky – la ragazza – che è anche Mary, cielo e terra, abnegazione e spinta dionisiaca, tentazione e ordine, peccato e salvezza, concezione non immacolata. E poi c’è Stan, il cui nome è solo un nome. Lui, lo sdrucito, efficace Charlie Hunnam, tenta di ergersi a baricentro di una vicenda la cui base – umana, sociale – è talmente frastagliata da far sfuggire l’ombra di qualunque proiezione. E anche qui c’è un viaggio lungo l’America poco scintillante, quella dei reietti, un viaggio di incontri e di separazioni; certo, è meno rocambolesco di quello raccontato da Lansdale, ma lo stesso annebbiato da qualcosa che si antepone alla mera volontà individuale (nel caso di Cielo di sabbia, la sostanza era reale, una piaga biblica, quasi): la sete di riscatto, qualunque cosa significhi in concreto questo termine, qualunque sia il prezzo da pagare (di solito, comunque, piuttosto alto…).
Nulla di così straordinario. A partire almeno dal cinema pugilistico degli anni Ottanta – e che prodromo eccellente è stato Il grande campione –, più o meno inscritto negli ideali reaganiani dell’American Way of Life, i film incentrati sullo sport hanno avuto l’andamento di una parabola. Quelli più irreggimentati tentavano di incespicare allo zenit, gli altri, Toro scatenato in testa, sprofondavano fino al nadir di distruzione e autodistruzione dell’uomo che aveva voluto farsi re.
Gli esempi si sprecano anche nel cinema contemporaneo, se si pensa a due lavori che sulla carta non potrebbero essere più diversi e che invece sembrano, proprio per quella vis sotterranea che si tende fra cinema e sport, dialogare con l’intima natura di Jungleland. Warrior oppure Foxcatcher: Eteocle e Polinice che si fronteggiavano col sangue, per il sangue (familiare), da una parte; dall’altra una sorta di paradise gained and lost per i due Caino e Abele riconciliati, ma sui quali pendeva il destino ineluttabile della cacciata dall’Eden, che si configurava sinistramente come espulsione dal regno dei cieli di John E. du Pont, narcisistico adulto-bambino, ancora sbilanciato fra onnipotenza soggettiva e realtà oggettiva. Fratelli, tutti fratelli, come Walter “Lion” e Stanley Kaminski, il cui cognome di origine polacca ha a che fare con le radici, e quindi, forse, con gli sradicati, e con la roccia.
E se non c’è il riferimento a Melville e alla sua più celebre opera – la scena è assai potente in Warrior; la vera lotta non è quella fratricida, ma quella impossibile, perduta per definizione, contro le forze naturali – a caratterizzare il lavoro di Winkler, si può ravvisare una chiave di lettura nelle raffinate scelte acusmatiche, o almeno, da una certo punto di vista, anempatiche, forzando un po’ la definizione di Chion.
Mi riferisco all’aria Vesti la giubba, da Pagliacci di Leoncavallo, che sentiamo, in parte e soffocata dalle voci, all’arrivo del terzetto di protagonisti nell’hotel che dovrebbe rappresentare la prima tappa di un radioso futuro, per i due operai tessili e per la ragazza del boss. Il testo medesimo distrugge nello spettatore qualunque aspettativa indotta dalle immagini – divani in velluto, enormi lampadari in cristallo, eppure un’illuminazione simbolista, che pare quella delle candele –, semmai l’avesse avuta: «Vesti la giubba e la faccia infarina./La gente paga, e rider vuole qua./E se Arlecchin t'invola Colombina,/ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!/Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto/in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor,
Ah!Ridi, Pagliaccio,/sul tuo amore infranto!
Ridi del duol, che t'avvelena il cor!»
È interessante collegare questo breve frammento a un’altra sequenza nella quale non è il chiacchiericcio motivazionale di Stan – ma non ci crede ovviamente più neppure lui – a prevalere: in macchina i tre ragazzi hanno la radio accesa. Udiamo un’omelia che potrebbe ispirarsi a una delle lettere di San Paolo ai Corinzi: «Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscirne, affinché la possiate sopportare.»
Una beffa, dato che non si scorge alcuna prospettiva ultraterrena in questa storia di disperazioni, ma anche la cruda verità, suggerita sottotraccia da una voce il cui volto e la cui provenienza ci sono sconosciuti e i cui riferimenti si possono solo ipotizzare, tendendo bene l’orecchio: nessuna tentazione li ha colti, che non sia stata umana.
Ed è proprio l’uomo, nel teatrino che imbastisce per cercare una via impossibile d’uscita, a giocare da perdente predestinato: Lion vince, sì, l’incontro decisivo e ritrova, almeno nello sguardo, ciò che credeva di aver perso per sempre. Perde però, nello stesso momento, ciò che credeva che non avrebbe perso mai. Un do ut des con il fato al quale pare non avere alcun senso cercare di opporsi.
L’unico momento di serenità, di vitalità non attraversata dalla violenza (i due fratelli scherzano, lottando fra loro) non a caso si svolge all’interno della mesta scenografia di una sala adibita a teatro di provincia. L’unica scappatoia plausibile è dunque la finzione, una finzione tragica e consapevole, quella che si auspica per il pagliaccio. O magari l’illusione che però è effimera: «Come on, we gotta keep the light burning. Come on and dream baby dream.», canta Bruce Springsteen sul finale.
Il resto invece è Jungleland, nome del torneo di pugilato a mani nude, verso il quale i due fratelli sono diretti, ma anche evocazione palese di uno status quo.
Ogni cosa, ogni persona ha un cartellino col prezzo esposto e un prezzo da pagare, non per riscattarsi, ma per tentare di sopravvivere in una giungla dove ognuno vive per se stesso. Mi sono ricordata dell’imperturbabile, magnifico finale di Killing Them Softly (Cogan – Killing Them Softly, il titolo italiano completo: per chi scrive, un autentico gioiello) che fa parlare i personaggi superstiti sopra un invito all’unità e alla fratellanza, pronunciato da Barack Obama: «This guy wants to tell me we're living in a community? Don't make me laugh. I'm living in America, and in America, you're on your own. America’s not a country, it's just a business. Now fucking pay me.»
Jungleland non arriva a simili vette, ma avrebbe meritato forse una maggiore attenzione.