TRAMA
Parigi, anni Dieci. Due amici, uno francese, l’altro tedesco, sono attratti dalla stessa donna…
RECENSIONI
Premessa, (in)evitabilmente acida. Molte delle copie di questo film distribuite nelle nostre sale, pur regolarmente restaurate, sopportano il peso del doppiaggio italiano “originario” (curato da Rossellini, annuncia un cartello prima dei credits, come se la precisazione potesse/dovesse polverizzare eventuali riserve). Non è (soltanto) il doppiaggio il problema, ma l’ingombrante presenza, nell’accoppiamento di pellicola francese e sonoro italiano, di scelte contraddittorie, che producono un’impressione d’insensato pasticcio. Un esempio? Subito prima dell’entrata di Catherine/Thomas, Jules pronuncia una battuta (si suppone) in tedesco, tradotta in francese dai sottotitoli presenti nella versione originale. Ma, nell’edizione italiana, Jules parla… in italiano, rendendo del tutto depistante la presenza del sottotitolo (viene da pensare alla celebre sequenza “sottotitolata” di “Io e Annie”). È presumibile che tale errore fosse presente nella versione doppiata “originaria”: se è così, perché non eliminare il sottotitolo? O doppiare nuovamente il film? O, magari, distribuirlo in versione originale? Esempio di conversazione “alla rovescia” dei beni culturali: si tutela l’adattamento, a discapito dell’originale… anche questo è (dis)umano.
Più che di un triangolo “audace” (lettura incoraggiata anche dalla nuova campagna promozionale), “Jules e Jim” tratta del legame simbiotico che si viene a creare fra due persone apparentemente molto diverse, sostanzialmente identiche nel loro essere del tutto normali, quasi insostenibilmente comuni (nel senso meno snob della parola). La banale, tranquilla esistenza dei due uomini è sconvolta dall’apparizione di una donna, anzi della Donna, l’eterno femminino che rivoluziona la calma piatta e trascina nel turbine persone cose eventi in cui s’imbatte.
Catherine è demoniaca, nel senso più greco del termine: un elemento perturbatore, reperto di un’epoca scomparsa (la statua), che oppone all’immobilità maschile (per gli uomini il massimo del cambiamento consiste nel tagliarsi i baffi) un’instancabile spinta alla metamorfosi (il travestimento maschile, l’incessante mutazione di abiti e acconciature, l’idea di moto turbinoso che è al centro della canzone scritta per lei da Albert). Catherine assomma in sé i caratteri che contraddistinguono i personaggi femminili di secondo piano: ha il candore logorroico di Thérèse, la grazia infantile di Sabine, la passione rigorosa di Gilberte, la voracità sessuale della silente avventrice al bar.
Assistita dal narratore (inarrestabile voce fuori campo che addensa ore mesi anni in pochi secondi), servendosi dei propri simboli ricorrenti (l’acqua, mai identica a se stessa, a volte rigenerante, a volte letale, e il fuoco che dissolve la materia e unisce gli spiriti), Catherine incarna (anche) la Storia, che, nel suo implacabile, capriccioso, inesorabile svolgersi, decide le sorti umane. Jules e Jim sono persi in lei, e in lei, paradossalmente, ritrovano il legame posto in crisi dal comune amore. Non importa essere felici o essere tristi, ma esserlo insieme. La forza dei due uomini sta nel loro essere “deboli”, capaci di sciogliere ogni riserva di fronte all’instabilità di Catherine. Jim tenta di resistere, di agire razionalmente: la sua punizione è, al tempo stesso, un’assoluzione e un finale non più evitabile.
I personaggi sono complessi e d’innegabile fascino, il tocco estremamente sensibile, ma i dialoghi risultano eccessivamente letterari, l’incessante voce fuori campo suona a dir poco molesta, le sequenze che dovrebbero risultare “forti” (la scena en travesti, il volo nella Senna, il finale) sono incapaci di pathos, per quanto piacevoli a vedersi. Si percepisce una pressoché totale assenza di passione (vera, non verbosa) e humour: gli individui sono raggelati (raggelanti), e, al tempo stesso, non sufficientemente “scavati” per poter essere oggetto di un’analisi entomologica (malgrado i frequenti riferimenti al mondo degli insetti).
Alcuni momenti (lo chalet immerso nella nebbia, la corsa, la passeggiata nella foresta piena di oggetti abbandonati) sono visivamente suggestivi, ma l’unica vera emozione è quella suscitata da Jeanne Moreau, voce e volto letteralmente intramontabili (vedi l’ultimo, inedito in Italia, “Cet Amour – Là”), nell’esecuzione de Le Tourbillon. Due minuti che cancellano il tempo, lo spazio, il rimpianto di una parziale disillusione.
Nel terzo lungometraggio, François Truffaut sperimenta maggiormente la forma: riquadri, zoom improvvisi, fermi immagine, panoramiche aeree, le stesse frasi scritte e lette in incipit. Ma i modi rivoluzionari non sono quelli di Godard, operano nelle forme del sentimento e dello struggimento, nella letterarietà del testo, nel candore con cui coglie i rapporti umani, le coscienze, i quadri idilliaci, rifuggendo l’anarchia arrabbiata. Ha preso alla lettera ciò che Bazin auspicava nel suo articolo “Per un cinema impuro”: il testo letterario non deve generare un adattamento ma arrivare alla letteralità filmata e mischiarla con la messa in scena (fondamentale la funzione della voce fuori campo per snodi narrativi e descrizioni). A lasciare estasiati sono i guizzi di freschezza e originalità in una struttura narrativa tradizionale, per quanto non sia sempre calzante il faceto che contrasta l’affetto con cui l’autore scrive le sue pagine. D’altro canto, la chiave comica e ironica apre magnificamente le porte della fantasia, soffocata quando si fa preponderante il melodramma. È, infatti, un’opera “buffa” che descrive (anche) in modo scanzonato ma (sempre) elegante e in profondità una Partita a Quattro (Lubitsch), un triangolo amoroso insolito (modello per decine di film a venire) fra due uomini e una donna inafferrabile e stregante, che passa da uno all’altro come per capriccio, fomentando la misoginia del personaggio di Jules (notare che i due protagonisti giocano sempre, non casualmente, a domino). Le invenzioni stilistiche, le situazioni paradossali e stravaganti, la vis comica sono offerte con sobrietà ma in quantità, con sprazzi di follia a bassa definizione: lo sproloquio di Catherine, i giochi con la birra, la scena della pistola, quella della donna “vuota” fatta per il sesso, Jules truccato da Mozart, l’esibizione del processo che incenerisce i cadaveri. In Italia giudicato immorale e uscito con un VM 18, ma il primo scandalo sulle abitudini sessuali della donna lo diede Les Amants di Louis Malle (sempre con Jeanne Moreau).