Recensione, Thriller

JOSHUA

Titolo OriginaleJoshua
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Genere
Durata105'
Fotografia
Musiche

TRAMA

Brand e Abby sono sposati, benestanti e hanno un figlio di nove anni, Joshua, che è un piccolo genio. L’arrivo della sorellina Lily destabilizza un equilibrio che si rivela precario, mettendo a nudo un’amara verità.

RECENSIONI

Joshua è un piccolo genio di nove anni che potrebbe non essere buono come tutti pensano. Su questo soggetto, tra i più usurati del genere horror, George Ratliff (anche co-sceneggiatore) prova a inserire variabili depistanti, in modo da disancorare il film dal genere di riferimento. Il tentativo, apprezzabile sulla carta, prova a fondere i possibili brividi con il dramma psicologico, disseminando momenti sdrammatizzanti ("hai i capelli di plastica" dice il padre al figlio), confondendo le acque (il fondamentalismo religioso dei nonni paterni) e giocando con le citazioni (si affaccia per un attimo lo spettro de La corazzata Potëmkin, con la carrozzina a perpendicolo su una scalinata, mentre lo spirito di Rosemary's Baby aleggia per tutta la pellicola). L'amalgama, però, manca di coesione e in più punti sfora nel disequilibrio. Ratliff sembra infatti voler suggerire, alludere, insinuare, non spiegare completamente, mentre in realtà va quasi sempre giù pesante e tratteggia molte situazioni in modo didascalico o ridondante. Alla nascita della sorellina segue il primo piano malefico del fratellino geloso. Quando la maestra spiega i rituali dell'imbalsamazione nell'antico Egitto, l'occhio del bambinello si illumina. Se la madre gira per l'elegante casa dell'East Side di Manhattan capita che salti dallo spavento trovandosi Joshua davanti all'improvviso. Ci si domanda come marito e moglie possano avere resistito nove anni con un piccolo alieno in casa senza porsi domande, cercare risposte, avere dubbi. È la mancanza del peso di questo pregresso che rende poco credibili i quadretti familiari, all'inizio pseudo sereni e via via sempre più esasperati, con un padre che non perde mai il suo ottuso ottimismo e una madre che cede invece immediatamente all'isteria. Poco aiuta la messa in scena, che finalizza ogni sequenza all'aggiunta di indizi prediligendo le scene madri, e si rivela in più di un'occasione stridente. Come se i gesti fossero quelli giusti, ma mancassero di verità. Del resto, la sospensione di incredulità per funzionare ha bisogno di un minimo di coerenza. Non può la madre lamentarsi di essere ingrassata a causa della gravidanza quando a dieci giorni dal parto Vera Farmiga si mostra in perfetta forma fisica; non si può vedere una madre che si tira insistentemente il latte dal seno senza che il livello nel contenitore aumenti di un millimetro. Al poco convincente risultato contribuisce anche la sceneggiatura, che o dice troppo poco (dei primi nove anni di Joshua non si sa quasi nulla), oppure sottolinea, spiega, scolpisce gli sviluppi, con dialoghi assurdi (il padre che al ricevimento dei genitori finisce per parlare delle gabbiette senza animali posizionate in fondo all'aula solo per comunicare allo spettatore che qualcuno, probabilmente Joshua, li ha fatti tutti fuori), scene di tensione che funzionano ma vengono piazzate in modo gratuito (la mamma e Joshua che giocano a nascondino), spiegazioni ad uso e consumo del pubblico (davvero un padre di famiglia terrebbe in archivio filmini che documentano la deriva psicologica della moglie?), ingenui colpi di scena (il padre che si mette a riguardare le sue riprese amatoriali e scopre la verità) e virate grossolane (la psicologa infantile cui basta un disegno per accusare il padre di molestie e poi non lo denuncia nemmeno). Monolitico il cast, con Vera Farmiga perennemente su di giri o in lacrime, Sam Rockwell che sembra sempre fuoriuscire da una commedia adolescenziale e il piccolo Jacob Kogan fin troppo in parte. Unica originalità degna di nota, il finale canterino, con un efficace fermo immagine che, finalmente, non aggiunge nulla all'evidenza.