TRAMA
Il passato turbolento di Jonas lo perseguita, mentre ripensa alla sua relazione adolescenziale con l’impulsivo, contorto eppure irresistibile Nathan.
RECENSIONI
Nato come film per la televisione e approdato in digitale come Netflix Original, Jonas è un film breve, veloce, compatto, consapevolmente limitato nella portata, ma non per questo sciatto o dozzinale. A ritmo sostenuto su due linee narrative e temporali, il film mostra una felice attenzione alle atmosfere e ai dettagli, cura una fotografia ammiccante, punta sulla freschezza degli interpreti. Jonas è un giovane uomo dalla condotta turbolenta, risse nei locali, sessualità aggressiva e compulsiva. Dopo l’ennesimo tradimento, il fidanzato lo caccia di casa. Jonas trascina il proprio disagio per le strade della città, fra l’ospedale in cui lavora come assistente infermieristico e la ricerca di un tetto sotto cui dormire. Finirà a prenotare una stanza in un albergo, non casuale. Parlerà con il giovane portiere che lì fa il turno di notte, un obiettivo calcolato. Scorre in parallelo la storia della sua adolescenza negli anni Novanta, costellata di madeleine generazionali: il game boy, Ecstasy Generation di Gregg Araki. Il primo amore, ricambiato. Nathan: un compagno di classe, ricco e misterioso, una cicatrice sulla guancia e una casa con piscina. Una sera, il carismatico Nathan trascina Jonas fino alla porta di un locale gay – Lucignolo e Pinocchio alle pendici dell’ignoto, sulla soglia di una scatola oscura delle meraviglie. Ma sono minorenni e il varco sul Paese dei Balocchi rimane chiuso. All’esterno li attende però un Mangiafuoco, un Gatto e la Volpe fatale. A ritroso, scaviamo a mano a mano nel dramma e Jonas si fa così racconto sul trauma – della perdita e della perdita violenta – e non (necessariamente) un film gay, coming-of-age omosessuale o coming-out ispirazionale (finalmente!). La brevità del racconto riduce purtroppo le implicazioni, schiacciato nei limiti del format televisivo il mistero rimane volatile e la narrazione finisce troppo presto, nel momento esatto in cui forse dovrebbe (ri)cominciare – chissà se è la strategia per un sequel. Rimane però la curiosità sul talento del regista-sceneggiatore Christophe Charrier, che immerge lo sturm und drang del primo amore sotto una patita brillante, quasi ozoniana, dentro alla quale però agisce in movimenti non scontati: il dramma, un ragazzo interrotto, che vira verso il giallo fino a flirtare con un’ipotesi horror, genere dal quale adotta la logica moralistica (“non fare ciò che è proibito, altrimenti sarai punito”) per puro gusto del gioco, senza permettere che questa ci faccia davvero la predica. Al centro della narrazione, lo sguardo obliquo di Félix Maritaud dona al personaggio di Jonas adulto la giusta problematica gravità. Spiace solo la prevedibilità della scelta: da 120 battiti al minuto a Sauvage, Maritaud sembra imprigionato in un unico personaggio che si riproduce all’infinito, già quasi un cliché. Merita anche di fare altro.