Drammatico, Recensione

JINDABYNE

Titolo OriginaleJindabyne
NazioneAustralia
Anno Produzione2006
Durata123'
Sceneggiatura
Tratto dadal racconto So much water so close to home di Raymond Carver

TRAMA

Quattro pescatori si imbattono nel cadavere di una donna ma decidono di continuare la loro attività, un accadimento che rompe la quiete di Jindabyne esasperandone i latenti conflitti.

RECENSIONI

Improvvisando su un’impalcatura classica (lo scoppio del tormento sopito in provincia), davvero inattaccabile è la versione carveriana di Lawrence: il regista di Lantana si immerge in un globo recintato - lo dice chiaramente il filo spinato in apertura - e illustra un purgatorio di afflizioni umane, dove nessuna pedina è univoca ma fa della propria doppia (tripla, quadrupla…) lettura una regola di fascino perverso. Nel dato tramico, codificato solo all’apparenza (i violenti screzi coniugali come presagio di una separazione che non avverrà), si fa spazio una rete di delicate sfumature che abbraccia fattivamente ogni passaggio, giocando a moltiplicare la percezione del nudo evento e quindi azzerando la verità, servendosi minuziosamente di un frasario ricercato (Se fosse stato un ragazzo lo avresti aiutato?, chiede la moglie al marito in un dialogo dalle mille ambiguità), dipingendo sui volti una luce soltanto per cambiare di tono nella sequenza appena successiva. Jindabyne è una fiaba nera sui lupi dei nostri tempi bui (il bambino porta un’arma a scuola, i genitori ne discutono) e sulla disgrazia che l’uomo rigorosamente si autoinfligge, dalla gabbia della ritualità (il culto della pesca, i feticci religiosi) fino alla cultura del sospetto (la sequenza quasi pedofila). Non importa trovare l’assassino, quasi fosse un mgarbuglio di casistica (cfr. La promessa di Penn), il vero giallo sta nell’afferrare le sfuggenti pulsioni umane che muovono la cittadina, simili o contrapposte anche nello stesso animo, e che estrapolano il film da un contesto simulativo modellandolo sulla linea della vita vera. Così, in un credibile esempio di narrazione progressiva, i personaggi dissertano sul loro passato senza squarciarne il velo e lasciandone sottintese le meschinità, per consegnare il pregio di un realismo che con la sua rigidità sfida la mancanza della tradizionale figura positiva - qui non ve ne sono - e porta dritto all’identificazione. Come prova della mano particolare dell’autore, come segno solare di un talento per il rivoltamento narratologico, valga per tutte la sequenza minimalista della chiesa, dove un prete si lancia nell’ovvio sermone buonista per esclamare poi una violenta parolaccia. Un magnifico ricamo che non trascura la regia (parecchi i momenti da ricordare: tra questi il rinvenimento del corpo, la nuotata dei bambini, ogni scena subacquea) e manipola a dovere gli ottimi interpreti - Byrne e Linney si dibattono nelle fauci della follia - , restituendo un autore lucidissimo e mai consolatorio. Un’offerta tanto crudele quanto peculiare che, portando la poetica del non detto al limite estremo, ritaglia una scaglia preziosa nella produzione corrente.