TRAMA
Liu e Deng sono una coppia di settantenni. Sposati ormai da mezzo secolo, vivono in una piccola città della Cina interna. La loro è una famiglia tutto sommato ordinaria.
RECENSIONI
Uno degli eventi della Mostra veneziana 2015 è passato quasi in sordina, in apertura di Festival, inaugurando sontuosamente la Settimana Internazionale della Critica: l’abnorme durata di Jia (tre anni di lavorazione, dodici mesi solo per le riprese), infatti, rendeva difficile una collocazione più favorevole.
Durante le sue quasi cinque ore la quotidianità di una famiglia (i due genitori settantenni vivono con figlia e nipote, mentre altri due figli risiedono in altre città), è restituita attraverso lunghi piani fissi: sembra succedere poco, i drammi sono piccoli, mai laceranti, ma intanto la vita di queste persone passa e lentamente, ma inesorabilmente, lo spettatore vi si immerge e la comprende.
Le lunghe scene non evidenziano solo lo svolgersi di un menage normalissimo, ma mettono sottilmente in luce i caratteri dei componenti del nucleo e le dinamiche che sovrintendono ai loro rapporti; così la madre che cucina e il padre che brontola sono in realtà due strateghi che governano la famiglia: calcoli esasperati delle finanze, prospettive future, bocciature e approvazioni di candidati alla mano della figlia, progetti nitidissimi sono tutti in funzione di un’unità che i due coniugi non vogliono si perda e in nome della quale operano sottilmente, con lavorio costante, manipolando figli e nipoti, agendo sui loro sensi di colpa.
La madre, anche quando si trova in casa dei figli, si impossessa della cucina, tenendo in pugno la circostanza chiave: quella del convivio. Quasi tutte le scene decisive si svolgono a tavola: le conversazioni sembrano normali, ma attraverso quei discorsi decisioni fondamentali vengono prese, tra recriminazioni e obiezioni che scoppiano in ritardo, in rimostranze che possono essere sedate con un rabbonimento, una rassicurazione, una spiegazione, un diktat sotto mentite spoglie.
Basandosi su una struttura a capitoli (con variazioni di ambiente: i genitori si muovono per andare a trovare gli altri due figli - Ozu tra le righe -) il film si affida a un registro sempre piano, senza notabili varianti di ritmo ma in cui, a ogni nuovo elemento che si acquisisce, si determina una migliore comprensione di quanto messo in scena - le differenze caratteriali e generazionali, il modo in cui si organizza la vita del nucleo, gli strappi culturali - e in cui l’equilibrio tra la costruzione drammatica e il registro realistico tocca la perfezione (così, ad esempio, quello sfogliare le vecchie foto funge da riassunto delle puntate precedenti).
Il film, mentre sembra consegnarsi a questo quadro sapido e dettagliatissimo (alcuni particolari sono folgoranti e rendono stupefacente la resa espressiva - a volte sembra davvero di spiare qualcuno che non sa di essere ripreso, tanto il senso della quotidianità routinaria è restituito fedelmente -), ha nel finale una svolta clamorosa: il ritmo cambia e una deriva quasi gialla apre uno squarcio su una situazione del tutto differente. Un lungo tragitto in macchina conduce lo sguardo dello spettatore altrove, lo fa penetrare in una casa sconosciuta a scoprire un nuovo nucleo familiare: un’altra saga potrebbe cominciare.
