TRAMA
Francia, 1425. A metà della Guerra dei cent’anni, la giovane Jeannette, alla tenera età di 8 anni, si occupa delle sue pecore nel piccolo villaggio di Domremy. Un giorno dice all’amica Hauviette che non sopporta di vedere le sofferenze causate dagli inglesi. Madame Gervaise, una suora, prova a ragionare con la giovane ragazza, ma Jeannette è pronta a impugnare le armi per la salvezza delle anime e la liberazione del regno di Francia. Guidata dalla sua fede, diventerà Giovanna d’Arco.
RECENSIONI
Da qualche anno a questa parte il cinema di Bruno Dumont sta attraversando un sensibile processo di semplificazione. Il titolo che ha inaugurato questa tendenza semplificatoria è senza dubbio Hadewijch (2009), film che si rinchiudeva deliberatamente in una dimensione claustrale per penetrare all’interno dei personaggi: “là dove le sensazioni cominciano”, per usare le parole dello stesso Dumont. È in questo film che si tracciano i nuovi confini della sua interrogazione audiovisiva, al tempo stesso intima e trasfigurante, tesa a passare dalle apparenze per accedere a un’altra dimensione. Mentre L’età inquieta (1997), L’umanità (1999), Twentynine Palms (2003) e Flandres (2006) si nutrivano delle aperture spaziali e sensoriali provenienti dal contesto ambientale, in Hadewijch si tratta, per la prima volta con un’intensità simile, di un vero e proprio paesaggio interiore proiettato sullo schermo per l’intero film. Non è più la concretezza dello spazio a risultare decisiva (si pensi al contatto olfattivo e tattile con la terra e le cose di Pharaon in L’umanità), ma l’incandescenza del sentimento amoroso provato dalla protagonista, un’incandescenza che finisce per produrre la completa trasfigurazione del reale.
Così Dumont: “È un paesaggio interiore che filmo. Penso che dovreste vedere Hadewijch non come un personaggio, ma come un sentimento. È puro sentimento, è l'incarnazione del nostro bisogno di amare ed essere amati. Di fatto, è un'astrazione”. Cambiano persino distanze e durate del filmare: non più inquadrature frammentate e spesso distaccate per evitare che l’attore monopolizzi la rappresentazione, ma riprese ravvicinate e di lunga durata che indugiano sul volto della protagonista (la non professionista Julie Sokolowski) per coglierne tutta la sua incerta, esitante spontaneità.
Poi è arrivato Hors Satan (2011), film-summa a scoppio ritardato, bilancio di un’opera che, fatta parziale eccezione proprio per Hadewijch, ha fatto dell’abolizione del pensiero raziocinante la sua ragione d’essere. Un cinema che alla logica dicotomica e binaria del senso ha perentoriamente anteposto la potenza contraddittoria e analogica della sensazione: “La mia ispirazione è nelle sensazioni, nella vita. Nella vita si provano delle cose e la sensazione è capace di spingersi in contraddizioni nelle quali il pensiero non può addentrarsi. Il pensiero non sopporta la contraddizione. Il pensiero non sopporta la coincidenza del bene e del male per esempio. La sensazione può farlo, può combinare il desiderio di santità e il desiderio di essere una carogna. Il pensiero non può, occorre che scelga: sì o no”, sosteneva Dumont all’altezza cronologica di Hors Satan.
E, soprattutto, un cinema concreto e mistico in cui la terra, ripresa in tutta la sua ottusa materialità, si fa veicolo di trascendenza. Un cinema che è un vero e proprio atto pagano di fede, una fiducia spropositata e irriducibilmente laica nella potenza trasfigurante delle immagini in movimento: “Non sono credente, il mio film non contiene l'esigenza di alcun'altra fede che quella nel cinema. Poiché per me il cinema è ciò che permette di far posto allo straordinario nell'ordinario e di lasciar percepire ciò che vi è di divino negli uomini, di provarlo. È ciò che avvicina il cinema e la mistica: la mistica dice "guardate la terra, vedrete il cielo". Ebbene, il cinema con i suoi strumenti può farlo. E non c'è più bisogno di religione per questo”. Con Hors Satan si chiude insomma un ciclo, quello in cui lo spazio e le sensazioni guidavano la ricerca cinematografica dell’ex professore di filosofia di Bailleul.
Prefigurato da Hadewijch, il cinema di Dumont sposta sensibilmente coordinate proprio dopo Hors Satan, film che, come abbiamo visto, rappresenta il bilancio radicale delle ossessioni sviluppate fino a quel momento. Da Hors Satan in poi, il cinema dello spazio e delle sensazioni si converte progressivamente in cinema dei personaggi e dei sentimenti. Ce lo dicono a chiare lettere perfino i titoli dei lavori successivi a Hors Satan, immancabilmente dedicati ai personaggi ritratti: Camille Claudel 1915 (2013), P'tit Quinquin (2014), Ma Loute (2016), Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc (2017), Coincoin et les Z'inhumains (2018) e, infine, il recentissimo Jeanne, presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2019. Non stupisce inoltre che, tra i lavori appena menzionati, quattro titoli su sei siano consacrati a due soli personaggi: Quinquin/Coincoin e Jeannette/Jeanne. Non sono più i luoghi a risultare determinanti come nella prima stagione del cinema dumontiano (basti pensare a Twentynine Palms e Flandres, due titoli dichiaratamente geografici), ma i personaggi seguiti nel loro divenire, nel loro diventare grandi: il piccolo Quinquin diventa Coincoin, Jeannette diventa Jeanne.
E se nei film precedenti a Hadewijch erano le sensazioni, con la loro irrazionalità e la loro vibrazione tellurica, a saturare la tavolozza emotiva delle vicende e delle situazioni rappresentate (si pensi agli attacchi epilettici di Freddy in L’età inquieta, all’urlo disperato di Pharaon mentre passa il treno in L’umanità, al terrore circolante nel deserto del Mojave di Twentynine Palms e a quello dislocato in un indefinito territorio di guerra di Flandres), da Hadewijch in poi il sentimento, specialmente quello amoroso, tende a fagocitare il tessuto affettivo messo in mostra. Così, quello che in Flandres era un viscerale e agguerrito spostamento del desiderio (Dumont: "Penso che tutto il film non sia altro che la rappresentazione del fuoco del desiderio di Demester per Barbe e che il passaggio alla guerra sia innescato dalla rivalità con l'altro: la guerra non che è la messa in moto della rivalità nel desiderio. È per questo motivo che la guerra non si svolge da nessuna parte, perché è la volontà di distruggere il rivale. Demester desidera perdutamente Barbe, ma Barbe non è una donna per lui. [...] La violenza, lo scatenamento omicida è la volontà assoluta di sopprimere il suo rivale e ottenere Barbe”), in P'tit Quinquin diventa esplicito e vacanziero spunto di intrattenimento e seduzione del piccolo eroe in favore dell’amata Ève. L’opaca e incontenibile violenza del desiderio di Demester si è tramutata nella fantasiosa e giocosa immaginazione di Quinquin, un’immaginazione messa completamente al servizio del suo amore trasparentissimo.
La stessa cosa vale più o meno per Jeannette, che esplicita ed espone una questione già presente in Hadewijch ma in forma meno esteriorizzata, l’Amor Dei. Se nel film del 2009 questo sentimento assoluto passava attraverso il corpo provocando un malessere indicibile, in Jeannette l’amore non passa più attraverso il corpo, ma lo sovrasta, lo lavora dall’esterno. Detto altrimenti è l’amore divino provato da Jeannette a farla crescere, a trasformarla nella condottiera Jeanne, a spingerla letteralmente all’atto senza troppi tentennamenti, mentre in Hadewijch l’eccesso di amore di Céline la privava proprio del suo nome da novizia, la rendeva un corpo estraneo al monastero e persino a se stessa. Ecco, in queste traslazioni dallo spazio ai personaggi e dalle sensazioni ai sentimenti si dà a leggere la semplificazione di cui si accennava all’inizio. Attenzione: non si sostiene qui che il cinema di Dumont sia peggiorato qualitativamente (ci troviamo di fronte a un cineasta gigantesco, capace di fondare un’estetica autonoma a prescindere dai generi frequentati o lambiti e dal registro adottato), si intende invece mettere in luce il processo di semplificazione e chiarificazione che lo ha ridisegnato progressivamente e, a mio avviso, inequivocabilmente.
Ed è un processo di semplificazione che, malgrado le apparenze stravaganti e bizzarre, è apprezzabile pienamente in Jeannette: nonostante la parvenza di singolarissimo musical quattrocentesco, si riscontra una certa meccanicità nell’applicazione dei principi dumontiani. Giovanna d’Arco, proprio come Hadewijch e Quinquin, è l’ennesima incarnazione dell’ambiguità: santa e guerriera, figura cardinale della mitologia francese capace di rappresentare tanto il nazionalismo tradizionalista quanto l’aspirazione alla liberazione dal dispotismo, eroina di passaggio tra Medioevo e Rinascimento, devota e insubordinata, martire e invasata, angelica e diabolica. Jeannette è l’incarnazione della doppiezza per antonomasia, insomma.
E allora è il “meccanismo del due” a regnare sovrano: due i testi di Charles Péguy adattati - "Jeanne d'Arc" (1897) e "Le Mystère de la charité de Jeanne d'Arc" (1910) -, due le parti che compongono la storia della vocazione della piccola Giovanna (“Infanzia” e “Adolescenza”), due le giovani non professioniste che interpretano Jeannette (Lise Leplat Prudhomme e Jeanne Voisin), due le linee di tensione che si fanno sentire distintamente (la spinta verso la terra nella prima parte, l’elevazione verso il cielo nella seconda), due le gemelle che sdoppiano il personaggio di Madame Gervaise (Elise e Aline Charles). E si potrebbe andare avanti nel gioco di riflessi con i due bambini affamati che si palesano a Jeannette all’inizio del film, col ruolo ancillare rivestito prima dall’amica Hauviette (anch’essa interpretata da due persone distinte) e poi dallo zio Durand (Nicolas Leclaire). Non c’è due senza due, per farla breve.
Ma, più in generale, è il principio della disarticolazione burlesca a dettare davvero legge: performance canore disarticolate sul set (le liriche di Péguy vengono cantate a cappella dagli attori mentre ascoltano la melodia grazie agli auricolari), musiche disarticolate rispetto al periodo rappresentato (le spiazzanti sonorità electro-pop di Igorrr), coreografie disarticolate rispetto agli standard estetici del genere di riferimento e del celebre artista che le ha arrangiate (Philippe Decouflé è stato praticamente obbligato a rinunciare a qualsiasi impronta creativa superiore, attenendosi invece alle limitazioni fisiche imposte dall’inesperienza degli interpreti). Ne deriva un’impalcatura complessiva vacillante e pericolante, fragile e claudicante. È questo, in ultima analisi, il progetto organico che si legge in filigrana: fare delle incertezze canore e dei passi maldestri di danza un elemento di gloria.
Non c’è un solo elemento del film che non sia sottoposto a questo processo: tutto appare deliberatamente decentrato, scompensato, sregolato. Disarticolato, in una parola. Ora, pare fin troppo evidente che, a partire da P'tit Quinquin sia davvero questo il principio strutturante (o destrutturante a seconda del punto di vista) del cinema di Bruno Dumont. Ed è proprio questo tratto distintivo, che rimane invariato a prescindere dal genere frequentato o dai registri adottati, a segnalare una sorta di irrigidimento delle risorse espressive di un cinema che, almeno fino a Hors Satan e con la parziale eccezione di Hadewijch, ci ha regalato alcuni tra i film più rimarchevoli nel panorama mondiale tra la fine degli anni ‘90 e metà anni ‘00. Mentre scrivo questa recensione non ho ancora visto Jeanne, dal quale è forse lecito sperare (e aspettarsi) un arricchimento estetico in cui il procedimento della disarticolazione smetta di giocare un ruolo così prevaricante. La prudenza s’impone.