Sky, Storico

JEANNE DU BARRY

Titolo OriginaleJeanne du Barry
NazioneFrancia, Belgio, U.K.
Anno Produzione2023
Genere
Durata113'

TRAMA

Francia, XVIII secolo. Marie-Jeanne Bécu, una donna di modeste origini, grazie al suo fascino e alla sua intelligenza compie una rapida ascesa sociale: da serva di un banchiere diventa ben presto una delle più famose cortigiane di Francia

RECENSIONI

Ci dibattiamo ancora, criticamente parlando, nel perenne dubbio se il cinema debba raccontare il vero, il verosimile, un vero artistico, il vero abbigliato con le lenti verdi di Kant, che però, in quel caso, sarebbero enormi lenti di massa, tipo quelle un po’ frastornanti che si usano per il 3D; o magari il falso, il falsissimo, l'iperbolico e dunque il vero un’altra volta ché, appena ti sembra di essere tranquillo in mezzo ai mostri, rispunta piccina e insidiosa la coscienza, collettiva e non.
In tutto questo dubitare, in parte superfluo, dato che il cinema – e mica solo lui – racconta cosa gli pare, talvolta nulla, ed è bellissimo così, e in parte pretenzioso, Mon Roi – Il mio re era un film talmente vero – la verità di solito è brutale – che più di una volta, durante la visione, ormai datata, mi accorsi di fissare l’angolo in basso a destra dello schermo: guardare il centro dell’inquadratura mi sembrava impudico (ma era una sorta di limite etico dello sguardo, non un difetto speculativo del film). Almeno in Italia, mi ricordo, fu stroncato senza appello. E me lo ricordo, dopo diversi anni, per due ragioni. Da una parte per la differenza abissale rispetto al mio giudizio di spettatrice – lo trovai una gemma, con due interpreti perfetti – dall’altra, per la portata di alcune critiche, davvero impietose. Suppergiù, i voti – un 3 stecchito mi rimase impresso – non lasciavano scampo a Maïwenn Le Besco, distante dalla poetica dell’antico pigmalione, Luc Besson, e al suo personale quid cinematografico.
La regista raccontava una storia tipo, in fin dei conti, così tipo che ti sembrava di averla vista mille volte, ma non le si imputava, mi pare, la mancanza di originalità, posto che nulla può essere più originale, almeno dai tempi di Euripide.
Perché il punto non era tanto, nemmeno per Tony, Tonì, con l’accento finale, ça va sans dire – abbreviazione di Marie-Antoinette, la regina – capire dove si era sbagliato o che si era sbagliato, ma indagare fino a che punto si fosse stati in grado di vivere quel qualcosa tra due persone e quanto male comporti, necessariamente, scegliere di provarci fino al punto in cui si fa crac.
Che poi, ci diceva Mon Roi, fa anche tanto bene: la vita non è per i pavidi e neppure per gli addomesticatori di leoni.
Il suo leone, il suo re, Giorgio, il sovrano pazzo, era un fool dell’amore e della vita, un istrione bastardissimo e bugiardo, appassionato e irresistibile, una calamita dalla quale i saggi si sarebbero allontanati fin dal primo incontro e che attraeva invece, in modo irresistibile, Tony, convinta che l'articolazione del ginocchio e ogni suo organo o ingranaggio potessero lavorare come voleva lei. Invece… è proprio così!
Il ginocchio si muove, se lo muovi, e, se lo muovi male, si rompe, ma poi si riaggiusta. È un gioco, a volte di prestigio, e i due amanti giocavano con classe, osservati da una camera che non si lanciava in lezioncine e, men che meno, in paternali.

Insomma, per quanto l’occhio femminile amplificato – è una fotografa, in un contesto assai tortuoso, dal punto di vista emotivo – di Melissa, nell’interessante Polisse, rappresenti un antesignano degli sguardi successivi, è senz’altro con Mon Roi che Jeanne du Barry - La favorita del re, anche questo mediamente stroncato dalla critica, dialoga in modo palese: il passato di una donna che si pone in relazione, quando antifrastica, quando con valore di monito accudente, con la donna dell’oggi. Lo fanno i ruoli a corte – Tony, la regina senza regno e con un re ricalcitrante, decapitata e poi ri-assemblata da sé stessa; Jeanne, la cortigiana, la libertina, la contessa per procura – e lo fa l’essenza filmica, titolo incluso: un lavoro orchestrato come un divertissement, che deride gli azzimati cerimoniali, smembrandoli attraverso reali (blasone da gioco erotico, nel caso del personaggio di Cassel) che sono poco, pochissimo, regali. In tutto questo, e con una certa Rivoluzione che comincia ad alitare sul collo dei privilegiati: dove nasce e dove finisce la libertà?
Senza giungere all’insistito, sebbene piuttosto incisivo, anacronismo di Il corsetto dell'Imperatrice, Maïwenn sbreccia la Storia in favore di un racconto che, a suo modo, è persino più anarchico di quanto non fosse quello di Sissi, tra sedie da giardino di resina e stracci dalla forma polipoide per pulire i pavimenti, appoggiati contro il muro. Intanto, come mera considerazione quasi metacinematografica, la regista sceglie, per protagonista, il divo reietto (non è la sede adatta: reietto per chi, a causa di cosa?), Johnny Depp, per interpretare – con efficacia – Luigi XV di Borbone, detto il Beneamato. L’attore americano, celebre negli anni delle collaborazioni serrate con Tim Burton e con il gotha del cinema internazionale, da Roman Polański a Kusturica, è infine decaduto a causa di una serie di flop commerciali e, ancor di più, di eccessi con droghe e alcol e di scandali; veri o presunti, ma, come è noto, la smentita è solo una notizia data due volte: nell’ipocrisia hollywoodiana, pure tre. Dunque Johnny è un re, ma più precisamente, in questa fase della sua carriera, un ex re. Parafrasando il titolo geniale di Truman Capote, nel suo tête-à-tête con Brando, è un ex duca in quello che per almeno un paio di decenni è stato l’assoluto dominio, un dominio di celluloide, si capisce. Poco importa, ché la Versailles di Jeanne du Barry è vera e falsa nello stesso istante: è cinema, nient’altro.

Il destino di Depp si riscrive attraverso Maïwenn che tuttavia non si lascia sopraffare dalla tentazione – era facile caderci, ghette e tutto – di iconoclastia a ogni costo. Certo, il caos che a tratti serpeggia – o forse è una sorta di babele dell’immagine e del pensiero – talvolta risulta più impacciato che vitale: si pensi a un frammento di studio del violoncello da parte di Jeanne, che, per la sua brevità e la giustapposizione semantica all’interno dell’impianto narrativo, potrebbe finanche sembrare inserito per errore. Ma la dissacrazione non è fine a sé stessa e, volendo azzardare un paragone, rimanda a ciò che fu capace di fare Liliana Cavani in Francesco, con l’oltraggioso (meraviglioso) interprete, Mickey Rourke, nel ruolo del santo, e la musica di Vangelis, usata, almeno concettualmente, come un tappeto sonoro dissonante.
Il re Johnny, per cominciare, è tanto più re – atto-re – quando smette la maschera, e le parrucche, che è obbligato a indossare (spesso, e spesso in modo ingeneroso, è stato accusato di saper recitare solo se travestito). Non è la stupidità del protocollo di corte – i saltelli all’indietro per non dare mai le spalle al sovrano sono una pantomima caricaturale degna di una Red Queen carrolliana! – a sancirne il valore umano. Sono i piccoli gesti di gentilezza, verso il paggio, Zamor, o nei confronti del valletto e fermier général – e compositore, ma il film ce lo ricorda in modo abbastanza implicito, come non ci parla della sua fine, tragica, analoga a quella di Jeanne – Jean-Benjamin de La Borde, qui caratterizzato con dolce fermezza da Benjamin Lavernhe.

La regista, che in buona sostanza ci racconta un’ennesima variazione, à la Pretty Woman, dell’archetipo di Cinderella, con in più l’uso della voce narrante che fa tanto fiaba antica (ma non per questo meno putrida: in Profumo, con l’onnipresente narratore, per antinomia, tutto sembra marcio), mischia la sacralità dei rituali incartapecoriti al profano dell’influencing, ridicolizzando, in modo intelligente, privo di enfasi moralistica, entrambi. La reggia è proprio quella reggia, ma nella scena, volutamente non poco macchiettistica, del risveglio e della vestizione del re, Jeanne e Luigi sembrano essere stati trasportati nella stanza degli interrogatori di qualche seriaccia crime, con lo specchio spia che consente di vedere gli altri, senza essere visti (ma il sovrano è ben consapevole della sua presenza). Jeanne, che si presenta in pubblico con abiti maschili o dalle fogge stravaganti, funziona da Mary Quant ante-litteram: detta la moda e diventa una precorritrice e una trend setter dei costumi, in senso proprio, dell’aristocrazia settecentesca, dotata di una personalità non così granitica. Lo fa, naturalmente, con grande ironia, annichilendo la boria invidiosa delle figlie del re-sorellastre di Cenerentola che la criticano per come si veste e, in modo (in)diretto, per il suo essere una parvenu.
Se Jeanne du Barry – La favorita del re fosse una battuta, sarebbe non tanto il celebre «C'è molta gente oggi a Versailles», attribuita a Marie-Antoinette, quanto piuttosto la ficcante definizione di de La Borde, in risposta proprio a una perplessità dell’arciduchessa d’Austria. Ebbene, non è grottesco, è Versailles. Tradotto dal nobiliese, significa: certo che è grottesco, è Versailles!
Per certi versi, potremmo spingerci ad affermare che Jeanne sia anche un’antenata della Maria Antonietta, Tony, contemporanea, non di quella del suo tempo che, un po’ baciapile, un po’ pavida, un bel po’ conformista, ha bisogno dell’intercessione stucchevole del cicisbeo per decidersi a rivolgere la parola alla preferita, insomma all’amante, una delle tante amanti, del non troppo amato – ma anche su questo dettaglio, comprensibilmente, il film tace – Luigi XV. Le ci sono voluti un paio di secoli per tentare una via di ricomposizione dell’eterno femminino, ma ancora non smette di… perderci la testa.