TRAMA
Jay, un giornalista televisivo, annuncia la morte per omicidio di un ragazzo che porta il suo stesso nome alla sua famiglia e, con il suo reality, si propone di aiutarla a fare luce sul caso.
RECENSIONI
Ma qual è il reality?
Il cinema contemporaneo si sta interessando sempre di più al fenomeno dei reality show, basti pensare che soltanto quest'anno, al Lido, sono stati presentati ben due film su questo tema, peraltro entrambi dell’Estremo Oriente: Sell out, del malese Yeo Joonhan, e Jay di Francis Xavier Pasion.
In Jay il reality show permette al regista filippino di condensare in maniera efficace una serie di riflessioni: da un lato uno dei temi più cari all’arte e al cinema soprattutto, ovvero il rapporto tra realtà e rappresentazione, asse portante del film sia nella struttura narrativa che nelle scelte formali; dall’altro lo sfruttamento spregiudicato dell’uomo e dei suoi sentimenti più elementari, come il dolore per la morte, da parte del mercato e dei mass media.
Pasion affronta il rapporto tra realtà e rappresentazione in modo originale e suggerisce di continuo collegamenti tra il piano della realtà e quello della rappresentazione: il protagonista del film, un conduttore televisivo, ha lo stesso nome, Jay, del ragazzo morto, protagonista della puntata del reality, e man mano che il film va avanti, le simmetrie tra il Jay studente e il Jay conduttore si fanno sempre più notevoli: assistiamo a un vero e proprio processo di scambio tra i due: nei rapporti con i parenti e con gli amici, il conduttore si impadronisce del posto che prima era dello studente. È l’ennesima variazione sul tema del doppio – qui come sostituzione/compensamento – inserita però in un contesto narrativo a sua volta strutturato sulla compresenza di due piani; il rapporto tra i due Jay riproduce, allora, in piccolo, quello macroscopico tra realtà e rappresentazione, facendosi portatore di un significato aggiunto. A partire dalla morte di Jay (1) la rappresentazione fagocita la realtà: solo quando arriva il conduttore – momento che coincide con l’inizio della trasmissione/rappresentazione – la famiglia dello studente viene a sapere della morte di quest’ultimo: la rappresentazione non segue la realtà nel suo farsi, ma la precede, costruendola (e così sarà per tutto il film, si pensi ai pianti ri-prodotti dalla madre).
L’assenza di confine tra realtà e rappresentazione è sottolineata ancora a livello visivo con l’estensione dell’”effetto reality” all’intera storia: tutto sembra essere spettacolo. E infatti lo è, perché Pasion ingarbuglia ancora la matassa e svela un altro livello di rappresentazione: quello della sua stessa attività filmica. L’operazione viene condotta prima in modo quasi nascosto, con una serie di stimoli allo spettatore che mettono in risalto la natura finzionale della realtà messa in scena: le riprese fisse in piano medio/lungo sulla troupe che entra e esce dalla casa dello studente, nel loro essere immotivate (fissità, eccessiva distanza), spostano l’attenzione dello spettatore da quello che mostrano al loro mostrare; poi, sul finale, lo svelamento è esplicito e, proprio perché effettuato senza soluzione di continuità rispetto allo sviluppo diegetico (a un certo punto il Jay conduttore si mette a ridere e il regista per un attimo entra in scena) distrugge in modo geniale tutta l’impalcatura narrativa, facendo crollare quell’illusione di realtà che è propria della rappresentazione cinematografica.
Il limite del film è il moralismo, mai pesante, ma un po’ banale, che c’è alla base: lo speculare dei mass media sul dolore è un tema già visto, qui riprodotto in maniera un po’ eccessiva, tanto da risultare (forse volontariamente) costruita.
(1) Ma è solo un’ipotesi visto che già quando il conduttore bussa alla porta la sorella, che gli apre, sta aspettando i risultati delle selezioni del grande fratello e, pensando di essere stata presa, reagisce mettendo in atto una scena preparata: ancora una rappresentazione.
