TRAMA
Una giovane istitutrice fa innamorare di sé lo scorbutico datore di lavoro. Ma l’uomo nasconde più di un segreto…
RECENSIONI
Delle numerose, precedenti versioni del romanzo di Charlotte Brontë, il più rinomato è quello firmato da Robert Stevenson (La Porta Proibita, 1944), figlioccio gotico-romantico di La Prima Moglie-Rebecca di Alfred Hitchcock. Quella di Franco Zeffirelli non sfigura nel suo approccio completamente differente affidato, al solito, al tono favolistico e sentimentale, al fasto delle scenografie e delle location (splendide, fra cui Haddon Hall a Bakewell). Il regista, temibile quando adatta testi preesistenti in zuccherose e plateali appendici filmiche, in questo caso sorprende favorevolmente per misura ed afflato romantico: vano aspettarsi raffinatezze d’autore, vale a dire profondi sottotesti, simbologie argute o geniali note dissonanti, ma Zeffirelli riesce a toccare le corde della commozione, ad imbastire un’efficace e squisita rappresentazione spettacolare, con una drammaturgia capace di sottili paralleli fra i due amanti dall’angosciante retroterra che ne ha modellato i caratteri (“Tu non sei nata austera, io non sono nato malvagio”) e fra le due “bambine abbandonate” (Jane e la piccola ragazza francese). Particolarmente felice il Rochester interpretato da William Hurt, diviso fra modi gentili e autoritaria scontrosità; condivisibile e coraggiosa la scelta di una Jane Eyre con le sembianze, così lontane dalla bellezza classica, di Charlotte Gainsbourg. Certe figure malvagie, puerilmente fiabesche e in-credibili (la matrigna, la governante, gli istitutori al collegio), sono riscattate da scene come quella in cui Rochester s’adira per il ritratto fedele che ne fa Charlotte/Jane o quella, con raro impeto focoso, del bacio in giardino.
