Drammatico, Recensione

J’AI TUÉ MA MÈRE

Titolo OriginaleJ'ai tué ma mère
NazioneCanada
Anno Produzione2009
Durata96'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Hubert ha 16 anni e odia sua madre.

RECENSIONI

La sequenza-videoclip di J’ai tué ma mère nella quale Hubert e Antonin dipingono usando la tecnica del dripping di Jackson Pollock, può essere una chiave per accedere al cinema di Xavier Dolan perché il suo primo girare è un po’ come l’action painting dell’artista americano: espressionista, istintivo, liberatorio. Come in Pollock, il regista porta il suo Io sullo schermo, smaschera l’inconscio. Dunque tutto, in quel cinema, racconta di Dolan: la narrazione e le forme nelle quali decide di esporla. Se il pittore lasciava sgocciolare il colore sulla tela, il regista fa colare le immagini sullo schermo senza elaborarle, sputandole, lanciandole con forza e senza filtri: c’è potenza nel suo gesto registico, c’è disordine, interiorità denudata, ma anche conoscenza di un linguaggio. E passione, istinto. Il suo è, nello stesso tempo, cinema consapevole e spontaneo. J’ai tué ma mère, che porta Xavier Dolan alla ribalta del festival di Cannes a soli 19 anni, è un’autobiografia romanzata sul rapporto contrastato con la madre, in forma di melodramma sperimentale. È un’epopea drammatica sulla precocità e i suoi dolori, sul tormentato cammino verso l’autonomia, sul distacco travagliato dal mondo familiare segnato dall’ultimo vano tentativo di inquadramento di una persona che non vuole essere classificata. In questo senso è un esordio impressionante, non solo per la maturità della scrittura e dell’approccio visivo, ma, col senno di poi, anche per come riesce a delineare un mondo poetico già perfettamente definito: l’opera del canadese continuerà, da allora, a parlare del rifiuto di ogni etichetta e categoria, della necessità di affermarsi come individuo, dell’inesistenza di un modo giusto e assoluto di organizzare l’esistenza. Continuerà a porre l’esperienza soggettiva al centro della scena, senza elevarla a esempio di nulla se non di se stessa e senza agganciarla a schemi culturali predefiniti, in un cinema la cui dimensione militante è innegabile, anche se in un senso non tradizionale, più volta a rivendicare un diritto all’eccentricità, dissociato dal discorso di genere. Diario adolescenziale filmato, raccolta di citazioni (letterarie, stilistiche: Dolan scippa a destra e a sinistra senza pudore), restituzione realistica di un mondo intimo (i libri, i poster alle pareti, gli oggetti, gli indumenti), opera di kitsch cosciente venata di pop (i ralenti, gli inserti visionari, i pittorici cromatismi), psicodramma isterico e divertente che scivola nell'impietosa indagine introspettiva, J'ai tué ma mère parte da un progetto di scrittura molto lavorato per stemperarne l'ipertrofia su un piano immaginifico in cui tante espressioni artistiche si incrociano. A livello tematico presenta l'esposizione di un archetipo, quello materno, che sottilmente (Les amour imaginaires, Laurence Anyways) o platealmente (Mommy), tornerà nel suo cinema come legame di definizione ineffabile: in un momento in cui Hubert sta arrivando alla piena conoscenza di sé, vive e si confronta con una madre che ama in quanto madre, ma che detesta, vedendola come un ostacolo al diventare ciò che sogna di essere. Di fronte a un'autostima scambiata per presunzione, a uno slancio creativo percepito come indisciplina e disordine, a un'omosessualità interpretata come segreto vigliacco, Hubert appare un enigma insolubile, una mina vagante, un soggetto che va in qualche modo inquadrato, un essere sulla via di perdersi che va reindirizzato, un deviato sociale da salvare prima che sia troppo tardi. L'incomprensione tra madre e figlio è un falla che, all’età del ragazzo, non trova modi di essere colmata se non con insensati atti di autorità (la scena dell'addio rabbioso prima di partire per il convitto è toccante, forse il momento drammatico più alto). Quanto questo film sia stato poi seminale nella filmografia del canadese lo dimostra la sua futura rilettura, in una chiave dichiaratamente patologica, inscritta in una cornice sci-fi, in Mommy, consapevole verniciatura commercial-arty del prototipo (di cui ripropone - in ruoli sovrapponibili - il duo di attrici Anne Dorval e Suzanne Clément).
Rimane un manifesto cristallino del talento del canadese, di un potenziale poi puntualmente espressosi nelle opere successive.

Can you see the real me, mother?

J'ai tué ma mère è tante cose. Una storia d'amore di quelle impossibili e viscerali che con difficoltà si integrano al pragmatismo della realtà. Una lucida e tesa analisi sul consapevole tradimento del tacito accordo tra una madre e il proprio figlio. Un lungo soliloquio urlato e singhiozzato sul desiderio di diventare adulti, pretendendo la propria fetta di libertà cullati nel grembo di una dipendenza tanto avvolgente quanto soffocante. La collisione tra immobilità del vecchio e iconoclastia del nuovo. Ritaglio di memoria condivisa in via di frammentazione. Dolan struttura l'anatomia di una separazione giocando sapientemente tra l'esterno e l'interno del mondo che mette in scena, una vivisezione di un corpo unico che tenta disperatamente di scindersi riscoprendosi nuovo, originario, nudo in un'altra forma. Questo andare e venire dal grembo materno, l'alternanza tra momenti di rabbia furiosa e subitanei rigurgiti amari di senso di colpa, descrivono una parabola di un mondo sottovuoto che lascia in superficie le incrinature più scabrose per farle diventare lame taglienti per tentare la cesura e il necessario distacco. Hubert deve  scardinare sua madre dall'olimpo di ovatta nel quale si sente suo malgrado trattenuto, deve ridimensionare il suo posto nel mondo, deve darsi una pace fuori da lei. Nonostante questi imperativi vitali, entrambi i personaggi, il giovane Hubert, occhio in movimento che osserva clinicamente ogni impercettibile gesto della madre, oggetto passivo della visione, vivono in luoghi fisici trasformati in universi pop di stati umorali brulicanti di soprammobili kitsch, incrostazioni di un passato che non molla la presa sul presente. L'inquadratura è anch'essa studiata con la stessa funzione di ancoraggio: riportare le immagini a piani medi, ad una medietà che sospende, taglia le basi, ma che preclude il movimento propendendo per la staticità dei corpi. L'inquadratura è la forma stilistica che riprende i tratti materni, mentre il montaggio, i tagli netti e risoluti portano in sé la volontà filiale di lacerazione. E il vero compromesso, tregua momentanea di una comunicazione interrotta, risiede nella condivisione silenziosa di un immaginario passato, di una memoria vacillante e ferma allo stesso tempo, in cui è ancora possibile riscoprirsi parti complementari anziché antitetiche.