
TRAMA
Giulio Verme è un ambientalista convinto in crisi depressiva, che alla soglia dei 40 anni si ritrova a fare la “differenziata” in un centro di smistamento rifiuti alla periferia di Milano. Avvilito, furioso, depresso è ormai totalmente incapace di interagire con chiunque…
RECENSIONI
Un paio di mesi fa Carlo Verdone, che non ha proprio la tempistica produttiva dilatata di un Terrence Malick, sosteneva che si fanno, ed escono, tante commedie italiane in sala: “talvolta due-tre a settimana, troppe”.Il ragionamento del comico romano rivela nemmeno tanto in filigrana la paura di un’overdose reiterata di comicità cinematografica a fronte di un sempre meno nutrito numero di spettatori paganti proprio per quel genere che ha reso per generazioni i produttori italiani dei discreti paperoni. L’arrivo in sala di Italiano medio, opera prima di un impilatore di sketch comici in tv come Maccio Capatonda, si aggiunge all’elenco infinito dei film temuti da Verdone per almeno un paio di motivi: non è l’exploit alla Zalone per gli incassi – dopo 30 giorni dall’uscita sono solo 7 le sale che lo proiettano – e quindi con 3 milioni e 900mila diventa uno di quei titoli “medi” (italiano medio, ça va sans dire) che crea il solito inutile traffico nell’improvvisa restrizione del target di genere; il film spicca il volo verso le sale cinematografiche grazie soprattutto alla popolarità del personaggio televisivo che, lima un po’ qua e aggiungi un po’ là, rimane la stessa sirena fedeistica per chi va al cinema. La matrice comica di Capatonda su Mtv, con annesse parrucchine attaccate con lo sputo, beceri paesani in canottiera, timbro vocale aspirato ed asmatico, è riversata come una valanga di rifiuti indifferenziati dentro ad una stiratissima ora e mezza di film. A ciò va aggiunto il sentimento e la pratica di molta analisi improvvisata che vuole leggere non tanto il testo in evidenza, ma desumere sottotesti politici e sociologici dove non ci sono. Italiano medio risulta ai più questa critica definitiva all’uomo medio del nostro paese, quando è presumibile che il livello con cui va scelto l’aggettivo dovrebbe essere, più che “medio”, italiano basso o addirittura imbecille. Perché in questo fastidioso e fiacco satireggiare di Capatonda (o come diavolo si chiama) spesso si confonde la destrutturazione dell’oggetto da colpire con la sua latente ammirazione tipica del volgarotto a cui viene sbarrato l’accesso alla prima classe per oggettive manchevolezze culturali. Badateci bene: l’estremizzazione della macchietta del vegano, che ricorda i saggi consigli dell’uomo della strada (non medio), e al di là di una discutibile urgenza comica e di una chissà quale funzione di potere contro cui scagliarsi, significa che per comprendere la radicalità di una deriva ideologica c’è bisogno di una parodia del mondo dei vip strafatti di coca, lampade ed esposizione mediatica? Questo nesso di significato è davvero faticoso da capire – ed è l’impalcatura di scrittura e filosofica del film - se non ingurgitando la pillola per ridurre le capacità mentali tanto decantata nel film. Qual è il bersaglio da centrare, il mondo di MasterVip? Quale l’idea forte e imposta socialmente in questo nostro terrificante evo da demolire, il veganesimo? Quale l’impellenza sarcastica da sfogare? Da questo punto di vista il film letteralmente non esiste. Il sottotesto letto e riletto dagli impavidi esegeti di Capatonda (o come accidenti si chiama) è un puro pretesto emulativo; condito perlopiù da giochi di parole da scuole medie, di storpiature di nomi e cognomi celebri che forse (e lo dice chi adora i caffè) nemmeno più nei bar di sesta categoria ascoltano per poi riderne, e dall’imbelle grossolanità con cui si espone la cacca e si sentono scorregge. Quella battuta su Giulio Verme bambino - “Se l’era fatta sopra” - con tanto di merda finta appoggiata sui capelli del bambino ed esibita alternativamente in uno sgangherato scavalcamento di campo porta più che all’ilarità alla pena. Cos’è questo film se non una baracconata a cui chiunque può accedere nei suoi posti di comando, talento artistico o meno, produzione Medusa o meno, lancio di Mtv o meno? L’impressione è che Capatonda (o come si chiamerebbe all’anagrafe anche se a nessuno interessa) sia lui stesso inteso nella sua voce comica come sintesi poetica di una linea tendente sempre più al basso con cui si designano carriere vip, personaggi popolari, leader simpaticoni da casa del Grande Fratello, improvvisati ruoli di maître à penser della comicità cinematografica. Il grado zero del cinema italiano di cui bisogna subito dimenticare le tracce. Fatica oltretutto davvero minima, segno che nemmeno l’abborracciato citazionismo (Hunger Games, la scena di sesso accelerata di Arancia Meccanica) ha lasciato il segno. Sic transit gloria mundi.
